Fiat addio, tra polemiche e rimpianti: un salto di qualità internazionale o l’ennesima fuga dall’Italia?
«Una fuga dall’Italia? È successo il contrario. Il futuro dell’auto nel nostro Paese ora è molto più solido e ha prospettive che non avremmo mai potuto immaginare solo qualche anno fa». Si congratula “con se stesso” e con Sergio Marchionne, il presidente Elkann il giorno dopo la nascita di Fiat Chrysler Automobiles (Fca). «L’obiettivo che abbiamo, se il mercato non ci tradisce, è di tornare ad avere tutte le persone al lavoro nelle nostre fabbriche», dice in un’intervista al giornale di famiglia La Stampa. Anche i sindacati commentano soddisfatti la svolta storica, la notizia del cambio di nome, di sede legale e finanziaria del maggiore gruppo industriale l’Italia. «La cosa più importante non è dove sarà la testa della nuova Fca, ma dove staranno braccia e gambe, ovvero investimenti e produzioni che possano garantire l’occupazione», ha detto a caldo il segretario generale dell’Ugl Centrella. «Gli investimenti negli stabilimenti italiani sono confermati e le produzioni saranno finalizzate in particolare all’export. Il cambio di sede non ci preoccupa», dice il leader della Uil Luigi Angeletti d’accordo con Raffaele Bonanni della Cisl («Già prima di allearsi con Chrysler, Fiat aveva stabilimenti in giro per il mondo e pagava le tasse in molti Paesi, è naturale che le grandi multinazionali operino in piazze finanziariamente importanti come Londra»). L’unico a dolersi della svolta è Cesare Romiti: «è un mondo in cui non mi trovo più», dice proprio lui che prese la guida dell’industria torinese per diversificarne la produzione. Un altro che storce il naso, ma non più nei panni di segretario della Cgil, è Sergio Cofferati per il quale si tratta di un «fatto nuovo e importante ma per nulla positivo, perché da un lato c’è il trasferimento della testa del nuovo gruppo che nasce dall’accorpamento con Chrysler in un Paese diverso dal nostro, e dall’altro permane la condizione di assoluta incertezza sul futuro degli stabilimenti italiani».
Comunque la si voglia vedere, da ieri è finita un’era. Si archivia la stagione del capitalismo nazionale inaugurata dalla Torino sabauda e dalla famiglia Agnelli. La Fiat non è più la Fiat, da ieri si chiama Fca, acronimo di Fiat Chrysler Automobiles. La nuova società, benedetta dal ministro dell’Economia e dal premier Letta trasloca all’estero e lascia Torino, dove l’11 luglio 1899 venne firmato l’atto di nascita da un gruppo di nobili e borghesi, appassionati di automobili. Da oggi la sede si trasferisce dal Lingotto ad Amsterdam e il capitale in Gran Bretagna ( i maligni dicono sotto i diktat di sua Maestà che risparmia 100 milioni di euro). Un passaggio cruciale che suggella l’integrazione con la casa di Detroit, ma anche la fine di un lungo capitolo della storia del più grande gruppo industriale italiano. Concluse tutte le tappe inaugurate nel giugno 2009, Marchionne ha completato la “conquista” del 100% di Chrysler e ha annunciato la struttura della nuova holding. Ultimo step sarà la fusione e la quotazione, entro l’anno, a New York e Milano. Difficile non parlare di fuga fiscale: certo, il lavoro, la progettazione, i motori restano italiani… Ma se la Fiat Chrysler Automobiles arriverà a sfornare (come spera Marchionne) sei milioni di auto potranno ancora essere considerate una ricchezza nazionale?