La web tax divide i Democratici. Renzi fa “riscrivere” il testo della legge voluta dal collega Boccia
Tassare i grandi motori di ricerca che non lavorano certo gratis? Anche sulla web tax la politica è divisa: la commissione Bilancio della Camera in nottata ha riscritto e alleggerito il “balzello” proposto dal democratico Francesco Boccia (introdotto nella legge di stabilità) dopo il no di Matteo Renzi, per il quale la tassa (che poi una vera e propria tassa non è) voluta dal suo partito rischia di far passare l’Italia a passare «dalla nuvola digitale a quella di Fantozzi». Il nuovo segretario internauta accanito ha imposto il ritocco dell’emendamento per non penalizzare eccessivamente i colossi del web tutte le imprese che operano su internet. Dalla nuova versione è scomparso l’obbligo di aprire partita Iva per tutti i soggetti che effettuano il servizio di commercio elettronico diretto o indiretto. Rimane invece in piedi la necessità di dotarsi della partita Iva per la pubblicità online e per il diritto d’autore.i ridotti.
Al sindaco di Firenze – leggiamo su La Stampa – piacerebbe di più un approccio come quello francese: Parigi sta facendo da tempo operazione di lobbying sui vertici della Commissione europea per far sì che i colossi del digitale paghino le tasse nei Paesi dove generano utili e non, come avviene attualmente, in quelli dove hanno sede, cosa che consente a Facebook, Google, Amazon e simili di sfruttare i regimi agevolati di nazioni come l’Irlanda e il Lussemburgo. I parere di forze politiche ed esperti sono discordanti e talvolta opposti. Per Riccardo Donadon , presidente dell’associazione Italia Startup, la legge può diventare «un clamoroso autogol per il nostro Paese» perché potrebbe distogliere investimenti internazionali importanti, proprio ora che il governo ha promosso il programma Destinazione Italia per attrarre risorse economiche dall’estero. Il contrario di quanto sostengono Boccia (e altri deputati di altri partiti) per i quali la politica attuale delle multinazionali del web si traduce in una forma di concorrenza sleale. C’è anche da dire che non si tratta di una vera e propria tassa (Facebook che nel 2012 ha versato all’Agenzia delle Entrate la somma ridicola di 192mila euro) perché si tratterebbe soltanto da parte delle imprese dell’obbligo di munirsi di partita Iva per poter continuare a vendere servizi nel nostro paese. «Il fatto che il nome della tassa sia improprio non è una buona ragione per farla saltare. Questa volta siamo d’accordo con Carlo De Benedetti quando afferma che non si capisce perché Google debba essere esentata dal pagare le tasse in Italia quando ha una struttura stabile nel nostro Paese grazie alla quale realizza utili molto rilevanti», è il parere di Fabrizio Cicchitto del Nuovo Centrodestra alfaniano.