Su RaiUno il film di Silvia Giralucci “Sfiorando il muro”: il terrore e la violenza raccontati senza censure
Ha ottenuto il 6,38 di share il film documentario di Silvia Giralucci “Sfiorando il muro” trasmesso ieri sera da Raiuno nell’ambito dello Speciale Tg1. Il lavoro di Silvia Giralucci e Luca Ricciardi era stato presentato al festival del cinema di Venezia del 2012. La trasmissione sulle reti Rai di un’opera come “Sfiorando il muro” ha un grande significato, poiché apre a una prospettiva differente sulla valutazione degli anni di piombo – e Padova, come sappiamo, fu un laboratorio operativo e importante in quel periodo della pratica violenta e del terrore – che va al di là della retorica sui “compagni che sbagliano”. Silvia Giralucci, figlia di un padre che fu – con Giuseppe Mazzola – una delle prime vittime delle Brigate Rosse, ha scelto per il suo film un itinerario tutto incentrato sulla ricerca (tra le scene più belle quella di lei che sfoglia la collezione del Secolo e osserva i servizi e le foto sui funerali di suo padre). Il film non vuole “celebrare” (ed evita anche di recriminare sulle responsabilità), non vuole “interpretare” ma mira oggettivamente a ricostruire un contesto. Lasciando però che appaiano come “lampi” offerti alla coscienza del pubblico episodi molto utili a formulare un giudizio. Per esempio Toni Negri che rivendica la “resistenza” e le lotte di quel periodo, e ancora la città di Padova che a lungo ha rifiutato di ricordare Mazzola e Giralucci come vittime cui tributare un doveroso omaggio, e da ultimo l’intensa intervista a Stefania Paternò (dirigente di primo piano del movimento giovanile negli anni Settanta, arrivata seconda dopo Marco Tarchi al congresso del Fdg del 1977, quello in cui Fini, nonostante fosse arrivato quarto, venne scelto da Almirante come capo dei giovani missini). Cosa dice Stefania Paternò? Che la guerra generazionale di quegli anni rappresentò un “brutto gioco” che non deve ripetersi mai più, e lo dice con le lacrime agli occhi. Basta questo per far bollare il film, come è avvenuto da parte di alcuni ambienti, come un documentario “buonista”? Perché su questo si apre un versante delicato: o quegli anni si superano (senza dimenticare), o si cristallizzano nell’eterna fissità dei buoni e dei cattivi (e i rischi di questo chi li calcola?).
Di vero c’è che l’intento di Silvia Giralucci non era quello di rivolgersi alla destra, di coltivare una memoria identitaria ma quello di dare un senso a un’assenza pesante, vissuta in un ambito tutto privato, familiare, in cui la politica non ha un ruolo determinante (pensiamo che fosse suo diritto scegliere la “prospettiva”). Certo è solo un punto di vista, certo su Mazzola e Giralucci si potevano dire molte altre cose, e sappiamo che la destra è abituata a vedere anche quei due caduti nell’ambito del tragico martirologio dei “cuori neri” che un odio brutale ha sottratto alla vita. Ma Silvia Giralucci si interroga su suo padre, non sul militante politico. L’odio e il terrore, è la narrazione che scaturisce dal film, si abbattevano con fanatismo distruttivo sui fascisti, sui professori, sugli stessi comunisti che contrastavano gli autonomi. Forse questa è stata l’«intrusione» che i “camerati” di Giralucci non hanno gradito troppo. Avrebbero preferito, forse, accenti e toni più autoreferenziali, chiusi al confronto col mondo esterno. Un film più orientato alla propaganda al posto di un film che pone interrogativi. Ma l’importante e che da parte di tutti si riconosca che la verità, su quegli anni, può essere solo “sfiorata”.