Stiamo diventando un Paese illiberale? Dal fisco “occhiuto” ai voti palesi… gli esempi ci dicono che il rischio c’è

1 Nov 2013 12:04 - di Silvano Moffa

Un modello illiberale. È esattamente quel che stiamo diventando, in un Paese dove stanno saltando i requisiti minimi su cui si fonda uno Stato liberale. Il guaio è che tutto accade senza che si faccia alcunché per frenare questa pericolosa deriva. Anzi, quando interviene qualche ripensamento su provvedimenti che appaiono vessatori e limitativi della libertà della persona, si adducono motivi diversi, che poco o nulla hanno a che vedere con quei sacrosanti principi. Francesco Forte, sul Giornale, indica l’idea di ridurre ulteriormente l’uso del contante come un esempio eclatante di modello illiberale. Al momento, questa pessima idea sembra che sia rientrata. Il ministro Saccomanni se l’è rimangiata dopo averla sbandierata come essenziale per risolvere il problema della  tracciabilità del denaro (come se gli italiani fossero tutti una banda di imbroglioni e di disonesti).

Il professor Forte spiega bene come una misura del genere sia inutile e controproducente ai fini tributari. Per una tassazione equa e ragionevole si può fissare una contabilità IVA completamente trasparente, collegandola ad uno specifico conto bancario.  Per evitare la fuga all’estero di capitali privati , basta individuare aliquote più ragionevoli e rendere lineare ed equo il rapporto tra fisco e cittadini, facendo in modo che ci sia un collegamento corretto ( e non sproporzionato) tra tasse e contributi, da un lato, e servizi pubblici resi al contribuente, dall’altro. Una delle ragioni della crescente fuga all’estero del risparmio e della evasione, come ormai ammettono un po’ tutti, sta anche nel terrorismo tributario che ha raggiunto picchi inauditi per le imprese e le famiglie. Proposte semplici, come si vede. Ma che non sembrano affatto interessare il governo. Eppure, si tratta di proposte che non toccano  né mettono in discussione quel principio liberale cui si deve ispirare uno Stato democratico degno di tal nome. L’abolizione del contante, al contrario,serve solo a mettere alla berlina il contribuente, a limitargli ogni residuo spazio di manovra, a rendergli complicata la vita.

Passi pure un limite per cifre elevate. Ma che senso ha ridurre la disponibilità a meno di mille euro, come se già questa non fosse una cifra  sufficientemente bassa e stringente?  Certo, un senso c’è. Il senso e’ di favorire ancora le banche e il sistema creditizio nel suo complesso. In questa maniera si obbliga il cittadino a mantenere i propri risparmi in banca, a pagare commissioni (fra le più elevate in Europa) e ad usare le carte di credito. Che ciò limiti la libertà di ognuno di noi poco o nulla conta. Non è tutto. Lo stesso professor Forte collega l’escalation di illiberalità anche alla vicenda del voto segreto sulla decadenza negato per Silvio Berlusconi. Il paragone non è forzato. Tutt’altro. A parte il fatto che, almeno in questa circostanza, pur con diversi distinguo, non sono mancate prese di posizioni nette da parte di molti autorevoli commentatori sulla negatività  e assurdità di una tale decisione. Quel che interessa,ai  fini del nostro ragionamento, e’ la parte di quei commenti dedicata alla sostanza dell’atto posto in essere. Un atto lesivo della sfera individuale della persona, per un verso, e della dignità stessa dei parlamentari, per altro canto. Quanto al primo punto, aver alterato, con improntitudine inaccettabile, la regola aurea che, in Senato, affida al voto segreto ogni decisione che riguardi la persona, e’ un sopruso bello e buono. Averlo fatto solo e soltanto perché il soggetto interessato è l’ex presidente del Consiglio costituisce una inaudita aggravante.

E poi ammettiamolo con franchezza: l’atto costituisce la riprova del declassamento del parlamentare , della sua perdita di ruolo e dignità, del dover essere solo e soltanto un numero da esibire e non un rappresentante del popolo che, in quanto tale,  opera in piena coscienza al riparo da ogni influenza e condizionamento partitico. Come se nella nostra Costituzione non fosse scritto a chiare lettere che il parlamentare e’ chiamato ad esprimersi  senza vincolo di mandato. Un principio, quest’ultimo,  posto a base della piena libertà di coscienza; un principio  che, ora,  con metodi inaccettabili, modificando inopinatamente la regola scritta,  si vuole conculcare. Certo, si potrebbe affermare  il contrario. Dire che , se c’è coscienza, non si deve temere di esprimere compiutamente e pienamente il proprio pensiero anche se il voto e’ palese. Ma questo non è del tutto vero. Le due condizioni non hanno affatto lo stesso peso sulla bilancia. In un clima così esacerbato come quello attuale, ove sembra prevalere la caccia all’uomo, con una esposizione mediatica quale quella che conosciamo e un meccanismo elettorale che affida solo e soltanto alle ristrette oligarchie dei partiti la scelta dei candidati, il parlamentare e’ ridotto ad essere un debole giunco esposto alla tempesta.  Vale solo e soltanto in quanto numero, come detto. La dignità va a farsi benedire. La sua coscienza  rischia di essere un orpello ingombrante e nulla più. Far finta che tutto questo non esista significa negare l’evidenza. E’ così che anche quel voto ingiurioso  diventa esempio di illiberalità.  Così l’Italia si  avvita su se stessa. Vittima, appunto, di un modello unitario illiberale.

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