Nella Cambogia comunista gli uomini venivano uccisi come insetti: alla sbarra gli ultimi carnefici
Gli spettri ogni tanto ritornano. Parliamo dell’ultimo delirio criminale del comunismo, quello perpetrato in Cambogia tra il 1976 e il 1979, l’atroce triennio dei khmer rossi al potere. Si sono concluse le udienze del processo a carico di due dei massimi responsabili del genocidio: Khieu Samphan, 82 anni, che all’epoca era presidente della “Kampuchea democratica” (“democratica”, come è noto, era la foglia di fico che i regimi comunisti apponevano alle loro tirannie); e Nuon Chea, il numero due del regime dopo Pol Pot, il dittatore dei khmer, deceduto nel 1998. È una pagina atroce, che sarà sicuraamente triste per i cambogiani oggi ricordare. Ma è una pagina che è necessario rileggere, non solo per ricostruire tutta la verità sul totalitarismo comunista del ‘900, ma anche per preservare le generazioni presenti e future dal veleno di una tirannia atroce e sanguinaria. Le fabbriche della morte e dell’orrore vengono sempre edificate sulla base di un progetto preciso. E, se i carnefici di ieri non sono oggi niente altro che dei vecchi criminali che si dichiarano “innocenti”, non per questo le ragioni che hanno alimentato il loro delirio ideologico sono scomparse. Tali ragioni sono presenti comunque nella natura stessa della società moderna e di massa, dove la richiesta di giustizia sociale, se male indirizzata, può sfociare nel rancore; e il rancore, a sua volta, sfociare nella giustizia sommaria, nello sterminio, nella pretesa atroce di ricostruire da cima a fondo la società distruggendo la vita di milioni di persone.
Nella “Kampuchea democratica” si poteva essere uccisi per il solo fatto di portare gli occhiali. E sì, perché gli occhiali erano segno di studio e di istruzione. E i khmer rossi volevano sradicare ogni segno della “cultura borghese”. Durante il regime di Pol Pot venivano passati per le armi tutti coloro che avevano frequentato le scuole superiori e l’università, unitamente a tutti gli appartenenti al ceto medio. Nei campi della morte finivano anche vecchi, donne, bambini. E, chi non era soppresso nei gulag “democratici”, moriva di stenti nelle città e nei villaggi. Uno dei primi provvedimenti del dittatore khmer fu quello di deportare buona parte della popolazione di Phnom Penh nelle “comuni agricole”. Il risultato furono l’impoverimento, la fame, le città deserte. Ancora non è accertato quante siano state le vittime accertate del delirio di Pol Pot e dei suoi accoliti. Ma le stime più prudenziali non vanno al di sotto dei due milioni di persone. Questi orrori appartengono al passato. Ma è di cruciale importanza ricordarli. Affinché mai più accada, in qualsiasi Paese della Terra, che si instauri un regime in cui gli uomini vengano divisi in due categorie: gli “dèi” (cioè i dirigenti) e gli “insetti” (cioè la stragrande maggioranza della popolazione).