Asor Rosa, le disavventure di un “barone” rosso: tra nepotismo e gelosia dei “compagni” professori

3 Ott 2013 19:50 - di Corrado Vitale

Fanno i moralisti e i fustigatori di costumi (altrui). Poi però sono bravissimi a curare gli affari (propri), ricorrendo largamente al favoritismo e al nepotismo. Di chi parliamo? Dei professoroni di sinistra, forti nella teoria (del primato etico), imbattibili nella pratica (del clientelismo famelico).L’ultimo caso ha per protagonista Alberto Asor Rosa, uomo di potere universitario (un  grande e venerato “barone”) e storico esponente dell’intellighezia progressista. Dal 1996 il professore è protagonista di una rissa tutta sinistrorsa con un altro illustre accademico progressista, Giulio Ferroni. Alla base delle contesa, accanto alle classica rivalità tra “baroni”, c’è anche una cattedra, che Asor riuscì, a suo tempo, a fare ottenere alla «compagna della sua vita» Marina Zancan. La professoressa, che si sentì diffamata  da un articolo del Ferroni, fece causa all’antagonista del suo illustre «compagno». Il contenzioso, che s’è trascinato per diciassette anni, s’è concluso solo in questi giorni con una sentenza della Corte di Cassazione.

La Suprema Corte ha dato torto alle suscettibile Marina, respingendo la sua richiesta di risarcimento danni da 500mila euro. Capito questi progressisti? Quando ci sono in ballo i soldi, come sono lesti ad abbandonare l’austerità rivoluzionaria!.  Per la cronaca, ricordiamo che Ferroni aveva molto criticato la «scissione» – guidata da Asor Rosa – del Dipartimento di italianistica della Sapienza e la decisione di fondarne uno nuovo, mentre lo stesso Asor continuava ad essere il direttore dello stesso Dipartimento. Tra quelle che Ferroni, nell’articolo, aveva definito «le tristi esibizioni baronali» dell’inviso collega figura l’essersi adoperato per far trasferire, dalla meno prestigiosa Università di Bari, a Roma, la  professoressa   Zancan, a discapito di un candidato più meritevole. Ad avviso della Cassazione, l’articolo «incriminato» in realtà sebbene «pure pungente, e per alcuni versi, polemico», ha «legittimamente esercitato» – per quanto affermato a proposito della Zancan – il diritto di critica, «ricorrendo nella specie l’utilità sociale dell’informazione, la verità oggettiva o anche solo putativa, la forma civile dell’esposizione e della relativa valutazione».  Chi s’indigna è perduto. Assai doloroso è il pungiglione della Rivoluzione. Soprattutto quando punge i «compagni».

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