Quella notte dell’8 Settembre di settant’anni fa…

7 Set 2013 18:11 - di Luciano Garibaldi

Perché il Re Vittorio Emanuele III, il governo Badoglio e tutti i capi delle Forze Armate lasciarono Roma nella notte fra l’8 e il 9 settembre 1943, abbandonando l’esercito italiano (una forza di due milioni di uomini) alla più rovinosa delle catastrofi? Fu una ignominiosa fuga, come da allora sostengono i nemici della monarchia, o fu una opportuna, ancorché drammatica decisione, presa a denti stretti nell’intento di salvare l’istituzione monarchica e garantire una continuità di governo al Paese, di fronte al rischio che i tedeschi, diventati improvvisamente padroni di Roma, arrestassero tutti, famiglia reale e governo, decapitando così l’Italia e cancellandola dalle carte geografiche?

A 70 anni dal più tragico evento della nostra storia, una risposta univoca non esiste, e le due interpretazioni storiografiche in conflitto trovano ancora ragioni che militano a proprio favore. C’è un mistero, nella tragedia dell’8 settembre, che nessuno storico è riuscito a svelare: perché gli americani non difesero Roma, lanciando nel cielo della capitale – come pure avevano promesso al momento dell’armistizio, firmato a Cassibile, in Sicilia, il 3 settembre, dal nostro plenipotenziario, generale Castellano – la 82a Divisione aviotrasportata? Fu per malafede che Eisenhower lasciò nelle peste il povero Badoglio? O, ancora, tutta la colpa fu dei generalissimi italiani, i vari Ambrosio, Roatta e Carboni, inetti e pasticcioni? Centinaia di ricostruzioni storiche, decine di memoriali non hanno risposto con certezza a queste domande. Il lettore trarrà le sue conclusioni, dopo aver ripassato assieme a noi gli avvenimenti.

Che hanno inizio la sera del 7 settembre 1943, allorché giungono a Roma, a bordo della sacramentale autoambulanza, due alti ufficiali americani, raccolti in mare poche ore prima come finti prigionieri. Sono il generale Maxwell Taylor, giovane e atletico vicecomandante delle forze paracadutiste Usa, e il suo aiutante di campo, tenente colonnello Gardiner. Scortati in un ufficio del ministero della Guerra (pensate che indossano, in piena capitale nemica, le loro regolamentari divise!) attendono tre ore che si presenti il generale Carboni, comandante del Corpo motocorazzato e contemporaneamente del SIM, il servizio segreto militare. Finalmente l’azzimato ufficiale, notoriamente più pratico di alcove femminili che di piani segreti di guerra, fa il suo ingresso e viene verbalmente aggredito dai due americani, che hanno una fretta maledetta e vogliono sapere dove far atterrare i paracadutisti, poiché l’annuncio del «cessate il fuoco» tra italiani e Alleati è ormai imminente. Ma Carboni: «È impossibile! I tedeschi hanno occupato tutti gli aeroporti! Bisogna assolutamente rinviare la notizia dell’armistizio. Del resto, Castellano ci aveva assicurato che essa non sarebbe stata da voi diffusa prima del 12 settembre».

Carboni, però, per quanto concerne le mosse dei tedeschi, è assai male informato. Come scriverà, nel suo libro di memorie, l’ambasciatore tedesco a Roma, Rudolf Rahn, «Kesselring aveva dato l’ordine di suscitare, con il trucco di automezzi fatti circolare rapidamente negli aeroporti, l’impressione di un apparato militare superiore a quello effettivo».

Sbalordito, Taylor, il quale sa che la notizia verrà data l’indomani, chiede di essere portato immediatamente da Badoglio. Alle 3 della notte il terzetto arriva alla villa del capo del governo. Il quale, pur sapendo che i due ufficiali americani stavano per arrivare, se n’era andato a dormire! Mezzo insonnolito, con una vestaglia indosso, Badoglio ascolta l’esposizione di Taylor, e infine lo supplica di inviare un cablo a Eisenhower perché sospenda l’azione. «Rivolgendosi all’americano, disse: «Non lasciateci soli. Se i tedeschi ci prendono…». Qui s’interruppe e, portando di taglio la mano alla gola, fece il gesto dello sgozzare». (Paolo Monelli, «Roma ’43»). Concetto che non farà che ripetere anche durante il viaggio verso Pescara, come risulta dal diario del gen. Paolo Puntoni, aiutante di campo del Re, «Parla Vittorio Emanuele III».

Secondo gli accordi verbali presi da Castellano a Cassibile, il segnale stabilito da Eisenhower per avvertirci del giorno in cui avrebbe annunciato l’armistizio era un concerto di musiche verdiane seguito da una conferenza sul Sud America, che sarebbero stati mandati in onda dalla BBC la mattina del «D-day». L’8 settembre mattina, concerto e conferenza furono regolarmente trasmessi, ma, nonostante gli ordini di Ambrosio, a Roma nessuno era in ascolto.

Quando Taylor, verso le 11, chiede se il programma è stato captato, gli rispondono, incoscientemente, no. Taylor ne è felice. «Hanno letto il mio cablo e hanno deciso di soprassedere», pensa tra sé e sé. Ma alle 16, improvvisa come una catastrofe, arriva la risposta di Eisenhower: «Non muterò una virgola del programma stabilito. Se gl’italiani vogliono tirarsi indietro, subiranno una durissima rappresaglia».

Ci vuole un’ora e mezza per decifrare il messaggio, che viene portato a Badoglio alle 17,30, esattamente nell’istante in cui le telescriventi di tutto il mondo battono il primo flash della Reuter con la notizia della resa italiana.

Rahn, che proprio quella mattina era stato ricevuto dal Re e si era sentito ribadire «l’assoluta lealtà italiana all’Asse», si precipita dal ministro degli Esteri, Guariglia, che, allargando le braccia, gli conferma l’esattezza della notizia della Reuter. Al rappresentante del Führer a Roma non resta che telegrafare a Berlino: «Ci hanno traditi».

Tra l’orgasmo generale, viene convocata una riunione al Quirinale. Attorno al Re e a Badoglio, si affollano, tra gli altri, Ambrosio, capo di stato maggiore generale, Sorice, ministro della Guerra, Carboni, comandante delle truppe corazzate, Guariglia, ministro degli Esteri, Acquarone, ministro della Real Casa. In mezzo alle proposte più strampalate (c’è addirittura chi vorrebbe smentire la notizia!), il giovane maggiore Marchesi, che aveva accompagnato Castellano a Cassibile, fa notare che è stato firmato un impegno a nome del Re e del governo e che occorre rispettarlo a qualunque costo.  Sco sso da quelle parole, il Sovrano si rivolge a Badoglio: «Va bene. Vada alla radio». Il capo del governo esegue e attende pazientemente l’ora del giornale radio delle 19,45 per leggere il più tragico documento di tutta la nostra storia: «Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate angloamericane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».

E questo fu tutto. Tutto quello, cioè, su cui l’esercito italiano, dislocato sui fronti di guerra in tutta Europa, poté contare per decidere il proprio comportamento. Mai, nella storia, un comando supremo agì con tanta superficialità. Tutte le unità militari italiane, dal più piccolo reparto fino al comando di Corpo d’Armata, appresero la notizia dalla radio! Non esisteva un piano, non una parola d’ordine, non un documento d’istruzioni cifrate, non una busta sigillata da aprire all’ora X. Niente di niente. Solo quelle sibilline, assurde parole pronunciate da Badoglio alla radio: «Esse reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».

Il vecchio maresciallo non aveva avuto neppure il coraggio di impartire apertamente l’ordine: «Reagite con le armi a qualsiasi attacco tedesco». I nostri reparti, specialmente quelli dislocati in Egeo e in Francia, che non captavano la radio, si trovarono di colpo circondati dai tedeschi, armi spianate, ad intimare la resa.

E pensare che, nella notte tra l’8 e il 9 settembre, a Berlino si dava ormai per scontato di essere in trappola. «Considero cessate dalla lotta le nostre Divisioni in Italia», disse, alle 3 di quella notte, Hitler a Goebbels, matematicamente sicuro che, all’alba, le 16 Divisioni italiane avrebbero intimato la resa alle truppe tedesche.

E invece, all’alba del 9, visto che non succede niente, Kesselring, quasi non credendo ai propri occhi, fa battere sulle telescriventi la parola d’ordine del «piano Alarico», da tempo preparato dall’OKW (Oberkommando der Wehrmacht) in caso di tradimento da parte dell’Italia: «Asse».

Come un fulmine, i tedeschi entrano in azione dovunque: dai più piccoli presìdii alle grandi città. Ogni reparto conosce il proprio obiettivo. Di solito, accade questo: che, laddove vi sia una formazione militare italiana, anche una semplice stazione carabinieri, si presenta un sottufficiale tedesco che intima la resa e la consegna delle armi. Gli ufficiali italiani prendono tempo. Invano telefonano ai comandi di Corpo d’Armata o d’Armata per avere ordini. Non trovano nessuno. I più alti in grado si sono messi in borghese e sono scappati. Da quel momento, chi può scappare scappa. Per gli altri, per quelli che non ce la fanno (e saranno più di trecentomila), sono in attesa i carri bestiame che li deporteranno in Germania.

Eppure la sproporzione di forze, specialmente attorno alla capitale, era enorme: a fronte di due Divisioni tedesche (la terza Panzerdivision, corazzata, a Nord, e la seconda Fallshirmdivision, paracadutisti, a Sud di Roma), gli italiani potevano dispiegare tre Corpi d’Armata forti di 8 Divisioni, di cui tre (la «Centauro», la «Ariete» e la «Piave») corazzate. Ma, senza un comando efficiente, anche la più formidabile macchina bellica è destinata a sfaldarsi.

Un’ora dopo l’annuncio della resa italiana, alle ore 21 dell’8 settembre 1943, la famiglia reale si trasferì da villa Savoia al ministero della Guerra, in via XX Settembre. Nella notte si svolse una riunione dei capi di stato maggiore i quali stabilirono che la capitale era «indifendibile», per cui occorreva «mettere in salvo il Re e il governo». Una fuga? Non necessariamente. Nel corso della stessa guerra, soltanto in Europa (quindi senza tener conto degli eventi sul fronte giapponese), almeno altri quattro sovrani, i Re del Belgio, dell’Olanda, della Jugoslavia e della Norvegia, con i rispettivi governi, si erano posti in salvo (o erano «fuggiti», a seconda dei diversi punti di vista) all’approssimarsi della terrificante macchina militare rappresentata dalla Wehrmacht di Hitler.

Lo stesso Re Giorgio d’Inghilterra, unitamente alla sua famiglia (dunque anche con la figlia Elisabetta, l’attuale sovrana) e all’intero governo, con alla testa Winston Churchill, nel caso in cui, nel 1941, i tedeschi fossero sbarcati in forze sul suolo della Gran Bretagna, avrebbe preso la via della «fuga». Il vertice dell’impero britannico sarebbe riparato nelle terre d’oltremare, in Canada, per potere, da qui, organizzare la riscossa. Il piano era pronto fin da prima dell’inizio delle ostilità.

Era dunque legittimo, secondo una fondata interpretazione storica, che Vittorio Emanuele III e il governo Badoglio si ponessero al sicuro in Puglia, l’unica regione del Sud non ancora occupata dall’avanzata anglo-americana, allo scopo di garantire la sopravvivenza e la continuità dello Stato. Peraltro, secondo un differente punto di vista, il Re avrebbe dovuto restare a Roma, affrontando il proprio, inevitabile destino: cadere prigioniero dei tedeschi e finire in un Lager, così come vi finirà tra pochi giorni sua figlia Mafalda (che morirà poi a Buchenwald). Non senza avere prima messo per iscritto la propria volontà di abdicare, non appena catturato, a favore del figlio Umberto, che avrebbe così guidato, dal Sud, la controffensiva.

E, per la verità, questo era precisamente, come ora vedremo, il punto di vista del principe ereditario, che – fosse dipeso da lui – sarebbe rimasto a Roma per guidare la resistenza contro i nazisti. Ma la storia d’Italia andò diversamente.

Alle 4 della notte, Badoglio svegliò Vittorio Emanuele, che si era assopito su un divano del ministero, e gli comunicò che bisognava partire immediatamente, perché c’era il rischio che, da un momento all’altro, i tedeschi facessero irruzione nel palazzo prendendo tutti prigionieri.

Fu a questo punto che il principe Umberto chiese al padre di lasciarlo restare a Roma, accanto al generale Calvi di Bergòlo, suo cognato, nominato comandante militare della capitale. Vittorio Emanuele III per un istante esitò, poi, di fronte alle lacrime della moglie, la regina Elena, insistette perché anche il figlio prendesse posto sull’auto reale che attendeva, col motore acceso, in via XX Settembre.

Mancavano pochi minuti alle 5, allorché il piccolo corteo si mise in moto preceduto e seguìto da due pattuglie di carabinieri motociclisti. L’auto del Re inalberava il guidoncino dei Savoia. Il corteo imboccò, nella notte che volgeva ormai all’alba, la Tiburtina. Oltrepassò un posto di blocco tedesco, ma i militari, che solo tra pochi minuti riceveranno per radio l’ordine di disarmare gli italiani, vedendo le insegne reali, si irrigidirono sull’attenti.

Il corteo fece sosta al castello dei duchi di Bovino, a Crecchio (Chieti). Qui Umberto tornò alla carica: «Padre, permettetemi di tornare a Roma. Un giorno diranno che i Savoia sono scappati». Badoglio si intromise: «Altezza, non se ne parla neppure. Se i tedeschi ci prendono, ci tagliano la gola!». Atterrita da quelle parole, intervenne ancora la Regina, in lacrime. E a quel punto, Vittorio Emanuele III troncò ogni discussione: «Tu vieni con noi. E’ un ordine! Non una parola in più».

Il corteo riprese la strada. Nella notte tra il 9 e il 10 raggiunse il porto di Ortona. Qui, allertata, era in attesa la corvetta «Baionetta». Il molo già rigurgitava di generali a tre e a quattro stelle. Roatta, capo di stato maggiore dell’esercito, in borghese, andava avanti e indietro, nervoso, con un mitra a tracolla. La nave da guerra salpò le ancore diretta a Brindisi, la nuova capitale del regno.

Le intimazioni di resa impartite dai tedeschi dopo la parola d’ordine lanciata da Kesselring ricevettero, attorno alla capitale, un netto rifiuto. La parola passava alle armi. I primi, feroci combattimenti si accesero a Porta San Paolo e lungo la Flaminia. A resistere erano i Granatieri di Sardegna (generale Solinas) e i carristi della Divisione «Ariete» (generale Cadorna). Non furono semplici scaramucce. Vennero distrutti decine di panzer e morirono centinaia di soldati, da entrambe le parti.

Alle ore 12 del 10 settembre, un ultimatum fu consegnato dal generale Westphal al generale Calvi di Bergòlo. Il testo recitava, secondo la più classica delle formulazioni hitleriane: «Se, entro le ore 16 di oggi, non sarà firmata la resa, si procederà al bombardamento a tappeto di Roma, l’acquedotto verrà inquinato e le truppe tedesche metteranno a sacco la capitale». Il generale Calvi decise di arrendersi.

A La Spezia, la Divisione «Alpi Graie» resistette fino all’11. A Bari resistette il generale Bellomo, e a Piombino 600 tedeschi trovarono la morte nel tentativo di sbarcare provenienti dalla Corsica. A Bastia caddero, nella difesa della città, trecento nostri soldati. Feroci combattimenti si accesero a Lero, a Zara, a Ragusa (Dubrovnik), dove il generale Amico cadde con le armi in pugno, e a Salerno, dove trovò eroicamente la morte il generale Ferrante Gonzaga. A Spalato, i carabinieri formarono il battaglione «Garibaldi» e, pur di non arrendersi ai tedeschi, si unirono alle bande di Tito.

Ma fu una vampata presto spenta. Ovunque, gl’italiani dovettero cedere alla superiorità dei tedeschi: in Italia come in Francia, in Grecia e nello Jonio come nei Balcani e nelle isole dell’Egeo, mentre persino gli americani erano costretti a segnare il passo, dopo lo sbarco a Salerno del 9 settembre, inchiodati sulla battigia dal rabbioso contrattacco germanico.

Solo un reparto della Regia Marina non ottemperò all’ordine di consegnarsi agli anglo-americani, e contemporaneamente rifiutò di cedere le armi ai tedeschi: la Decima Flottiglia Mas, asserragliata al Muggiano (La Spezia), dove il comandante, il capitano di vascello Junio Valerio Borghese, dopo aver fatto issare il tricolore sul pennone, mise ai pezzi i propri uomini con l’ordine di aprire il fuoco contro il primo tedesco che si fosse azzardato a mostrare intenzioni aggressive. Nessun tedesco osò affrontare quel reparto, già leggendario tra tutti i combattenti della seconda guerra mondiale. Le camionette della Wehrmacht continuarono a transitare per ore lungo la via Aurelia, dirette a Sud.

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