Decadenza, giusto ricorrere alla Consulta. Ma l’immagine che proiettiamo all’estero è devastante

10 Set 2013 12:16 - di Silvano Moffa

Voto o non voto. Cade o non cade. Sulle sorti di Berlusconi e del governo continuiamo a sfogliare la margherita. Un gioco allucinante e perverso che rischia di travolgere tutti in un sol colpo.  Spingendo il Paese in fondo al baratro. A leggere le cronache politiche di queste ore, si ha la netta sensazione che la maionese sia impazzita.  E che, nel vorticoso affastellarsi di opinioni contrastanti, di interpretazioni giuridiche più o meno fondate, di  opportunismo di parte spacciato come difesa di principi irrinunciabili, si stia perdendo definitivamente la trebisonda. Regalando al mondo una immagine devastante del nostro Paese. Non vogliamo fare la morale a nessuno. Non è questo il punto. Siamo talmente immersi  nel circuito vizioso della perdita di senso della storia e di declino di valori fondanti, che, solo a parlare di etica e di moralità, si rischia di apparire come Alice nel paese delle meraviglie. Una sorta di alieno, di marziano. Eppure, le lancette dell’orologio che battono il tempo della politica nostrana stanno scandendo l’ora di un passaggio cruciale, di una svolta decisiva nella lunga transizione italiana. Perché una cosa ci sembra appurata: l’esito della vicenda della decadenza da senatore del leader del centrodestra lascerà  strascichi velenosi e procurerà  contraccolpi pesanti e imprevedibili in entrambi  gli schieramenti. Un governo, per quanto nato dall’emergenza e tenuto in vita con patimento reciproco dai due blocchi del Pd e del Pdl, dura fintato che ci siano numeri sufficienti e uno straccio di convenienza reciproca. Il richiamo alla responsabilità rispetto al Paese, alla sua condizione economica e sociale, agli impegni assunti in Europa, si traduce in un ritornello poco convincente, piuttosto di maniera, banalmente elettoralistico ed autoassolvente, quando salta l’ultimo anello della convenienza, anche soltanto per una delle due parti in gioco. Allora, si arriva al punto di non ritorno.  Quando, cioè, la diplomazia e il volo delle colombe rinserrano le ali, e la parola passa alle armi. Che ognuno brandisce come meglio crede.

Abbiamo scritto, nei giorni scorsi, che avevamo trovato singolare e un po’ ingenuo l’atteggiamento di chi, nel Pdl, ha coltivato l’idea che la sinistra potesse accettare un compromesso per salvare il soldato Berlusconi da una fine ignominiosa, dopo la sentenza di condanna pronunciata in via definitiva dalla Corte di Cassazione. Evidentemente, la storia non ha insegnato nulla a costoro. Né vent’anni di conflitto permanente, non solo con il partito che fu di Togliatti e Berlinguer, prima di diventare un amalgama giustizialista e falsamente liberista, ma anche con quella parte della magistratura politicizzata, assurta a depositaria della verità assoluta, preda di una visione escatologica per la quale spetterebbe a lei , e non ad altri, fissare le regole del gioco, costituendo l’inventario dei valori etici e morali cui improntare la vita di una comunità. In barba, come è intuibile, al sacrosanto principio che pone i giudici al servizio della legge, come custodi di legalità, e la giustizia come strumento per farla rispettare, la legge, non per riscriverla o interpretarla secondo differenti punti di vista. Fin qui nulla di nuovo sotto il sole. Purtroppo. Vale però la pena sottolineare che tale questione si sta riproponendo pari pari nella Giunta del Senato che deve decidere la sorte senatoriale del Cavaliere. Scrive sul Messaggero Piero Alberto Capotosti che, al di là del merito della materia in esame (la decadenza ), c’è un problema  preliminare che va chiarito: il fatto, cioè, se la Giunta per le elezioni possa sollevare questioni di costituzionalità innanzi la Corte costituzionale. E, quindi, sottoporre alla Consulta la legge Severino. Il nostro ordinamento è chiaro in proposito. Se esiste un dubbio “non manifestamente infondato” sulla legittimità costituzionale della legge da applicare al caso sottoposto all’esame di un giudice, quest’ultimo  sospende il  giudizio e invia gli atti relativi alla Consulta perché si pronunci sulla questione. L’unica incertezza potrebbe nascere nel caso in cui la Giunta del Senato non fosse equiparata ad un giudice. Il ché non pare possibile. È stata la stessa Corte Costituzionale a chiarire che gli organi appartenenti al Potere giudiziario non  sono solo il Tribunale, la Corte d’Appello, il Tar e così via. Lo sono anche quegli organi che, sia pure in via eccezionale ed occasionale, svolgono funzioni oggettivamente assimilabili a quelle giurisdizionali. Come è il caso, in definitiva, della Giunta del Senato, cui sono demandati compiti assai delicati in materia di incompatibilità, ineleggibilità e, oggi, incandidabilità sopravvenute, dei propri membri. Sospendere la decisione su Berlusconi fin quando non si pronuncia la Consulta, non appare, dunque, una richiesta assurda. Serve, peraltro, a ristabilire un principio di chiarezza che vale per chiunque. Una decisione sulla retroattività di una legge non è cosa da prendere alla leggera. Se non fosse, purtroppo, che la partita ormai è diventata soltanto politica. E quando in politica soffia il vento della resa dei conti, parlare alle coscienze, come discettare di un’etica del diritto libera dal ricatto e dotata di forza autonoma, è impresa ardua. Forse impossibile. La forza dei numeri soverchia la forza del diritto. Ma, se così sarà, le conseguenze saranno disastrose.

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