Non si è italiani per caso. Qualche rispettoso suggerimento al ministro Kyenge
Rispettiamo, com’è nostro costume, le opinioni di tutti, in particolare se autorevoli come quelle che un giorno sì e un altro pure esprime il ministro dell’Integrazione Cècile Kyenge e ci associamo a quanti, indegnamente, con volgarità e disprezzo umano prima che politico, l’hanno aprioristicamente denigrata con l’aggiunta di insulti personali che non trovano alcuna giustificazione e suscitano la condanna più radicale. La signora Kyenge è italiana di origine congolese, parlamentare della Repubblica e ministro di un governo legittimo: se ne faccia una ragione chi guarda la realtà con i paraocchi ed ha una visione a dir poco ristretta dei mutamenti che sono avvenuti nella sfera pubblica e privata in Italia non meno che altrove.
Tuttavia ci permettiamo di ricordare al ministro Kyenge che la sua speranza di «vedere un’Italia con tanti giovani che non devono chiedersi qual è il loro Paese ma che sanno chiaramente di essere italiani pur avendo una visione internazionale», ci sembra una riduzione quantitativa e non un presupposto qualitativo della definizione di nuova cittadinanza che da più parti s’invoca. Noi vorremmo, al contrario di quanto sostenuto nell’intervista rilasciata all’Ansa dalla Kyenge, che tanti giovani si chiedessero e rispondessero consapevolmente alla domanda: che cosa significa oggi essere italiano? Nel nostro piccolo ci limitiamo a suggerire che non sarebbe poi così difficile se la cultura, le agenzie formative, le stesse politiche sociali e di integrazione intendessero l’italianità non come una qualifica tale da escludere chicchessia, ma la definizione di una identità. Ciò non vuol dire che chi arriva da noi o nasce da genitori che provengono da altre latitudini non possa sentirsi ed essere italiano: acquisire il senso ed il sentimento dell’appartenenza è un processo di penetrazione in una civiltà a cui dovrebbero votarsi tutti coloro i quali scelgono il nostro Paese come patria di elezione e non come una terra occasionale di passaggio.
Avremmo preferito che il ministro Kyenge, al di là dei richiami piuttosto retorici al multiculturalismo (non ha scoperto niente: erano multiculturali e perfino multietnici i romani, un imperatore a noi particolarmente caro come Federico II di Svevia, mentre un grande storico del Novecento, Gioacchino Volpe, nella sua opera sugli albori della nazione italiana, sottolineò che essa nacque all’alba dell’XI secolo dalla fusione di culture, storie, esperienze, modi di intendere la vita diversi e lontani), si fosse soffermata su che cosa vuol dire essere nelle presenti circostanze italiani indipendentemente dal colore della pelle e dalle origini di chi a tutti gli effetti si sente ed è italiano. In altri termini, noi non abbiamo bisogno dell’indistinto, ma della specificità, il che non vuol dire marginalizzare chicchessia, ma accoglierlo conformemente alla nostra cultura che può e deve convivere con altre culture, ma senza la pretesa di snaturare le altre. Il rispetto di ognuna è il presupposto per un civile rapporto ed un proficuo sviluppo anche in termini economici (come ricorda la Kyenge).
Quanto poi alla lingua, ci perdoni la signora ministro, ma noi all’italiano siamo particolarmente affezionato ed il fatto che in un Paese si parlino molte lingue non vuol dire che la lingua originaria debba passare in secondo piano o essere considerata semplicemente alla stregua di qualsiasi altra lingua. Se così fosse potrebbero chiudere i battenti i nostri istituti di cultura, la Dante Alighieri e si potrebbe mettere fine a tutte le iniziative tese alla salvaguardia della lingua che è il fondamento primario di un “sentire” italiano e si affianca a tante altre espressioni del nostro spirito nazionale.
Non ci permetteremmo mai, in nome del culto che nutriamo per le differenze, di stabilire un’assimilazione per esempio di qualsiasi etnia ad un’altra: ciò che sta avvenendo nel mondo, con l’aggressione a popoli deboli, in via di estinzione, in nome dell’omologazione e del pensiero unico, è di una gravità assoluta, una sorta di genocidio culturale che non mi sembra appassioni più di tanto democraticissimi organismi disposti ad indignarsi giustamente nel difendere i diritti umani, ma non a spendere molte parole sui diritti dei popoli.
Anche questo è un problema di fronte al quale la modernità non sembra si sia acconciata nel modo migliore. Forse chi si occupa di integrazione dovrebbe levare il proprio sguardo dal cortile domestico per guardare più oltre, cosciente che in ogni popolo c’è una scintilla di spiritualità che ne nobilita la storia.