Parenti serpenti: in nome dell’euro, la Germania schiaccia l’Europa

7 Giu 2013 17:21 - di Silvano Moffa

L’economista James Galbraith, ospite a Roma dell’Eurispes, ha messo in guardia l’Europa dal perseguire politiche rigoriste e di austerity per uscire dalla crisi. Ha spiegato che negli Stati Uniti, dove non danno un gran peso al debito pubblico , le cui dimensioni  non sono certo inferiori a quelle di alcuni Paesi europei, si è molto puntato sulla rigenerazione del sistema bancario, senza slegarlo dal “fattore crescita”, per rimettere in moto il sistema produttivo nel suo complesso. Dalle pagine del Corriere Alberto Alesina e Francesco Giavazzi invitano a “imparare la lezione americana”. Misurata in cifre, questa lezione ci dice che gli Stati Uniti stanno crescendo al ritmo del 2 per cento l’anno. In un triennio il tasso di disoccupazione è sceso dal 10 al 7,5 per cento. Il deficit pubblico, al netto degli interessi, è diminuito di 7 punti in percentuale del Prodotto interno lordo , passando dall’11,5 per cento del 2009, quando si era al culmine della crisi, al 4,5 per cento previsto per quest’anno. In tre anni, fra il 2011 e il 2013, gli Stati Uniti  hanno ridotto le spese di circa 2 punti di Pil e aumentato le imposte di un punto e mezzo.  Anche in Europa i deficit sono scesi, ma la crescita non è ripartita e in Italia siamo alle prese con la recessione più grave dal dopoguerra. Partendo da questi dati, i due economisti  puntano il dito sul fatto che da noi  non si è attaccato «alla radice e senza indugi il problema delle banche. Le prime misure del governo americano, quando era ancora presidente George W. Bush, furono rivolte alle banche, le quali furono obbligate a rafforzare il loro patrimonio anche con l’aiuto pubblico. Fatto questo, gli interventi volti a ridurre il deficit sono stati molto meno costosi che in Europa proprio perché non si sono sommati ad una contrazione del credito». Le imprese e le famiglie, nonostante la contingenza sfavorevole e la spirale speculativa procurata dalla bolla immobiliare,  hanno potuto respirare oltre Atlantico. Noi, invece, le abbiamo compresse e soffocate, aumentando la pressione fiscale e imbrigliandole nella morsa della burocrazia. Insomma, da analisti di scuole diverse e dalla comparazione di situazioni pur differenti da paese a paese, da continente a continente , mi sembra che affiori una convergenza di vedute sul fatto che la medicina propinata al cavallo della crisi nell’eurozona sia stata sbagliata. Si doveva prima di tutto nutrire il cavallo (le banche), ridargli forza e vigore affinché riprendesse a trottare (elargendo  credito) e dopo, soltanto dopo correggerne i difetti di galoppo . Fuor di metafora: ridurre il deficit tagliando le spese.  Fatto sta che ora ci troviamo nel vortice di un circolo vizioso. Meno credito alle imprese significa maggior sofferenza per queste ultime, aumento dei fallimenti, contrazione della capacità produttiva del Paese e, quindi, minor capitale per le banche, incremento dei tassi di disoccupazione. E’ il cane che si morde la coda.

In una tale situazione non  suona affatto stonato il monito  di Berlusconi a «ingaggiare un braccio di ferro con la Merckel per rimettere in moto l’Europa». Se non si parte da una revisione profonda delle politiche che fin qui hanno prodotto disoccupazione e bloccato la crescita, se non si recupera il senso profondo della solidarietà che diede vita , nei secolo scorso, all’idea dell’Unione Europea, c’è poco da sperare in una ripresa della nostra economia. La moneta unica, da perno su cui far leva per rafforzare quella unità, è diventata un problema anziché la soluzione. La Germania e i suoi Paesi associati hanno un vantaggio competitivo del 30 per cento in termini di costo e questo conferisce alle merci tedesche una posizione dominante a spese dei Paesi dell’Europa meridionale. La moneta unica, in buona sostanza, sta paralizzando i Paesi del Sud a tutto vantaggio dei Paesi del Nord. Di qui la impossibilità per i Paesi che si affacciano nel bacino mediterraneo di migliorare le capacità produttive e competitive delle imprese private sui mercati esteri. Dalla morsa del debito pubblico e della disoccupazione in crescita è arduo uscire se il solo obiettivo è fissato dal dogma del pareggio di bilancio prima del 2015 e del salvataggio dell’euro. Se questo può valere per Paesi come la Germania e i Paesi Bassi, che registrano una disoccupazione in fase discendente, come lo si può pretendere da chi deve fare i conti con dati crescenti su tale versante, con una diminuzione del gettito fiscale e la bilancia dei pagamenti in deficit? Bisogna prendere atto che viviamo in una eurozona fortemente squilibrata, dove gli interessi dei singoli Stati  (ma sarebbe meglio parlare di “aree”) poggiano su fattori di base contrastanti. Ed è difficile, praticamente impossibile, che l’eccesso di rigidità nell’imporre regole ferree ai più deboli possa sortire effetti positivi.  Conforta almeno il dato che sta crescendo  il numero di coloro – esperti e politici –  che indicano in una modifica dei trattati della Ue e in una diverso valore dell’euro, tra il Nord e il Sud dell’Europa, una possibile via di uscita. In fondo,  ricordano in  un recente saggio Bruno Amoroso e Jesper  Jespersen, che lo Sme (il  famoso “serpente” che manteneva in equilibrio il sistema monetario europeo) non aveva dato cattiva prova. E’ quello un modello che potrebbe far tesoro delle esperienze storiche degli anni Trenta (la politica del New Deal di Roosevelt) e del dopoguerra (l’accordo di Bretton Woods sui rapporti valutari internazionali e il Piano Marshall per l’Europa). Non è una eresia pensarci.

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