Nei partiti non c’è più l’esercizio della leadership ma l’abuso di potere. È colpa del “Porcellum”

20 Giu 2013 16:06 - di Mario Landolfi

Forse neanche al tempo della dissoluzione per via giudiziaria della prima Repubblica la crisi dei partiti è stata così come ora ad un passo dallo scatenare una vera e propria crisi di sistema. Ne abbiamo avuto una prima avvisaglia solo pochi mesi fa, con un Parlamento nuovo di zecca ma drammaticamente incapace di trovare una sintesi politica nell’elezione del capo dello Stato. E se alla fine la situazione si è sbloccata, è stato solo grazie alla disponibilità al bis di Napolitano e all’istinto di autoconservazione del sistema.

Da allora il fondale limaccioso in cui sono incagliati i partiti non è mutato. Tutt’altro, prova ne sia il massiccio astensionismo registrato al recentissimo turno amministrativo – con il picco record proprio a Roma – che ne ha ancor di più impietosamente messo a nudo il grado di delegittimazione presso la pubblica opinione. Certo, è una difficoltà che non nasce oggi, ma che ora rischia di travolgere l’architettura stessa della nostra malmessa democrazia anche per effetto della sua possibile saldatura con la crisi economica più dura dal 1929 a questa parte. Nessun partito ne è immune, almeno quelli dotati di una certa consistenza elettorale.

Rispetto al recente passato, tuttavia, la difficoltà attuale dei partiti non deriva da problemi di linea politica o di posizionamento rispetto al governo, ma da vicende ad essi tutte interne, il cui comune denominatore è senz’altro la leadership. È sufficiente per rendersene conto immaginare un pendolo che oscilla dall’estremo del Pd, dove essa latita, a quello del PdL, dove, al contrario, essa esonda.

Nel partito oggi retto da Epifani, il vuoto di leadership è occupato da una feroce guerra per bande. I protagonisti interni più accreditati, Letta e Renzi, condividono esclusivamente il fatto di essere materialmente lontani dall’epicentro parlamentare dello scontro: il primo, perché presidente del Consiglio, il secondo, in quanto sindaco di Firenze. Per il resto, a dispetto di presunti patti generazionali e foto ricordo, è guerra totale, combattuta non a caso più sulle regole del futuro congresso che sulla sua data. La polpa della questione sta tutta intorno al nodo della coincidenza o meno nella stessa persona della leadership e della premiership. È una disputa solo apparentemente bizantina perché solo le caselle saranno due l’attuale premier e l’ex-rottamatore riusciranno a convivere sotto lo stesso tetto. In caso contrario, uno dei due – facilmente Renzi – potrebbe sentirsi di troppo e togliere il disturbo, con buona pace dell’unità interna e, a quel punto, della tenuta stessa del governo.

Il fantasma della scissione non ossessiona invece il PdL, dove la leadership berlusconiana è addirittura a prova di flop elettorale. Una condizione a dir poco confortante per la tenuta del partito ma politicamente assai anomala. Nessun partito che avesse perso oltre sei milioni di voti alle politiche e sedici ballottaggi su sedici tre mesi dopo, compreso quello di Roma, si sarebbe stretto intorno al proprio capo come ha fatto il PdL per esaltarne il carisma e ribadirne l’insostituibilità. Quasi un rito tribale, il cui senso più autentico non sta tanto nell’esternazione di un apprezzabile attestato di lealtà quanto nel bisogno dettato dalla disperazione di dover sventolare una leadership che si sa essere non fungibile né tantomeno superabile. In tal senso, più che unito o pacificato, il PdL appare semmai sedato. Il suo destino e quello del suo fondatore sono indissolubilmente intrecciati: simul stabunt, simul cadent. Qui non ci sono congressi alle viste ma sono annunciati imponenti operazioni di restyling che investiranno l’organizzazione interna, le modalità di selezione dei dirigenti, forse il nome e persino il simbolo. Praticamente cambierà tutto, tranne – ovviamente – il leader. A differenza del Pd, qui è proprio l’impossibilità di un ricambio condiviso e senza strappi a rischiare di terremotare il sistema politico.

Ma anche fuori dal recinto dei partiti-perno delle coalizioni è ovunque un pianto greco. La leadership di Monti si è dissolta all’indomani dell’archiviazione del suo governo, come testimonia la fibrillazione per ora a bassa intensità scatenata dalla microcomponente casiniana, mentre nella Lega appare intermittente quella di Maroni, su cui continua a volteggiare come una minaccia la pulsione al ritorno di Bossi.

Un discorso a parte meriterebbe la leadership di Grillo, carismatica solo fino a poco tempo fa, ma ora sempre più tributaria di una concezione disciplinare e caporalesca della vita interna al suo movimento. L’ex-comico paga la scelta del proprio autismo politico. Era convinto che tenendo al riparo i suoi eletti dai giochi di palazzo avrebbe potuto poi guidarli con minori difficoltà. È invece costretto a fronteggiare gli effetti di una crescente crisi di rigetto del suo progetto di autoisolamento con ricadute non facilmente prevedibili per la stabilità stessa del quadro politico.

In definitiva, deboli, forti o immarcescibili che siano, appare evidente che il tema della leadership è cruciale per il sistema politico nel suo complesso. Quest’anno ricade il ventennale dell’introduzione dell’elezione diretta dei sindaci (ne discuteranno a Benevento giovedì prossimo Viespoli e Bassolino, che di quella stagione furono protagonisti) che ha fatto da apripista a quella dei presidenti di regione. Vale la pena ricordarlo per l’indubbio apporto fornito da quella scelta alla personalizzazione della politica e quindi all’affermazione della funzione della leadership ed al suo sdoganamento dopo mezzo secolo di eccessivo parlamentarismo cattocomunista. Da allora, però, di acqua ne è passata sotto i ponti e, mercé anche il varo del Porcellum elettorale, l’esercizio della leadership ha ceduto il posto ad una sorta di “abuso di potere” permanente che ha finito per selezionare la classe dirigente in base a parametri di valutazione che un’azienda lanciata sul mercato o quotata in borsa non si sognerebbe neanche di prendere in considerazione. Non si spiega altrimenti la circostanza che tutti i partiti vogliono, almeno a parole, cambiare l’attuale legge elettorale e nei fatti, poi, nessuno lo fa. Ma invece è proprio da lì che bisognerebbe cominciare.

 

 

 

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