L’islamizzazione strisciante della Turchia rischia di infiammare il Mediterraneo. La Siria starà a guardare?

4 Giu 2013 9:06 - di Gennaro Malgieri

La Turchia brucia. Da Istanbul ad Ankara a Smirne alle remote città dell’Anatolia brucia ed allarma non soltanto il Mediterraneo. Non sarà una “primavera”, come non lo è stato per quelle nordafricane e mediorientali due anni fa, ma è l’avviso – almeno per ora – che un pretesto, non saprei quanto involontariamente cercato dalle autorità di quel Paese, può creare i presupposti di una crisi dalle proporzioni geopolitiche ed umanitarie di proporzioni gigantesche. La Turchia non è la Tunisia, tanto per capirci. Quel che accade lì inevitabilmente si riflette sui Paesi vicini e produce conseguenze nel bacino mediterraneo che presidiava egregiamente con l’ambizione di diventare una potenza regionale alla quale l’Occidente guardava con favore, come si può guardare ad una nazione che della laicità dello Stato, grazie alla “rivoluzione” di Ataturk, ha fatto un baluardo a guardia della libertà e di contenimento dell’espansione islamista.

Preoccupano, certo, i seicento alberi di Gezi Park che il regime di Erdogan e le autorità municipali di Istanbul vogliono abbattere, e la protesta contro tale dissennato disegno che s’inquadra della urbanizzazione selvaggia della città sul Bosforo, fino a farle perdere la propria identità, ma a questo punto preoccupa ancora di più ciò che è venuto fuori dalle viscere della protesta: l’opposizione da parte dei cittadini alla islamizzazione strisciante promossa con provvedimenti restrittivi dal governo da circa un anno. Insopportabile per i figli di Ataturk che finora hanno fatto buon viso a cattivo gioco. Tutta qui la materia del contendere di fronte alla quale anche l’Europa è rimasta spiazzata dal momento che la Turchia ha continuato a mantenere viva l’attenzione sulla sua volontà di entrare a far parte dell’Unione. Adesso tutto si complioca maledettamente.

A Gezi Park, inopinatamente, sono state dunque poste le premesse di una contestazione al potere approfittando di un  progetto urbanistico che non soltanto contrasta con la sensibilità dei cittadini che avversano la cementificazione di Istanbul e vorrebbero l’identità della loro città più “protetta”, ma dimostra l’arroganza di un potere che è come se avesse perso i contatti con la realtà e le richieste del popolo. A dimostrazione che  sono altri gli interessi dei sostenitori del regime, perlopiù legati a multinazionali che in Turchia investono massicciamente sul turismo, ai quali Erdogan in cambio dell’appoggio all’islamizzazione “morbida” offre i vantaggi di investimenti che si traducono in scempi culturali e paesaggistici come testimonia il faraonico complesso alberghiero, di incomparabile bruttezza, sorto alla periferia di Istanbul.

La previsione di costruire nei prossimi tre anni l’aeroporto più grande del mondo, un terzo ponte che colleghi le sponde europee ed asiatiche, un nuovo canale sul Bisforo, l’abbattimento e successiva costruzione di un terzo delle case della città significa far perdere a Istanbul i suoi connotati. Ecco perché la “deforestazione” del parco di Gezi è il segnale che Istanbul sta per diventare un’altra cosa.

Di fatto già non è più quella che era alcuni anni fa. Le affascinanti donne turche che incontravo passeggiando per Taksim da qualche tempo sono come sparite: si vedono moltitudini di ragazze velate e nessun antiquario ti offre più una birra per il timore di essere additato come un poco di buono. Quando Erdogan  assunse il potere nel marzo 2003, a seguito della vittoria elettorale nel novembre 2002 del suo partito per la Giustizia e lo Sviluppo di ispirazione islamica, promise che nulla sarebbe cambiato a cominciare dalla laicità dello Stato:  il mondo si aprì al tempo nuovo che quel giovane ambizioso e realista prometteva di inaugurare. E così è stato almeno fino a tre o quattro anni fa.

Ataturk poteva dormire il sonno eterno nell’imponente mausoleo sulla collina di Ankara. Tuttavia stonava che la moglie del presidente della Repubblica Gul apparisse velata, che il premio Nobel per la letteratura Oran Pamuk avesse difficoltà a scrivere nel suo Paese e passasse più tempo in Germania, che un’altra scrittrice, Elif Shafak, di seducente bellezza e ammirata per i suoi romanzi, non risparmiasse critiche ai governanti, che i diritti umani non venissero tutelati come ci si attendeva. Migliorerà, si diceva. E invece alle hostess della Turkish è stata imposta una misura più lunga della rossa divisa, oltre al velo naturalmente; è partito il progetto per rendere Santa Sofia luogo di culto musulmano tradendo il mandato di Ataturk che ne fece un museo della complessa identità turca; nei bar e nei ristoranti sul Bosforo un bicchiere di vino è diventato raro.

Gezi Park è il “luogo” della rivolta e Taksim brucia. Due dimostranti sono stati uccisi. Migliaia sono i feriti ed un numero imponente gli arrestati. Si manifesta inneggiando al nazionalista Ataturk e in segno di sfida si agitano lattine di birra. Non andrà a finire bene. Il Mediterraneo assiste impotente e  diventa più inquieto.  La Siria non resterà centramente a guardare ciò che le accade accanto.

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