A proposito di cultura di destra. Di nuovo…

20 Giu 2013 21:04 - di Marcello De Angelis

Da circa venti anni con l’avvicinarsi dell’estate si apre un dibattito sulla “cultura di destra”, sempre per la verità breve e sempre inconcludente. La ragione dell’origine di questo tormentone estivo è che in Italia la cultura è tenuta in gran conto – anche se molti non sanno dirti esattamente di cosa si tratti – e che è sempre tornato strano ai professionisti della cultura, da quando la destra è stata accettata come realtà politica di una certa influenza, che questa non lasciasse qualche traccia seppur labile nel mondo delle rappresentazioni e dell’immaginario collettivo. Ad aggiungere confusione – oltre al fatto che non è chiaro cosa si intenda per cultura – c’è da considerare che non si sa nemmeno bene che cosa si intenda per destra. Quindi “cultura di destra” è una definizione che unisce due concetti indefiniti. La destra in Italia, fino alla discesa in campo di Berlusconi, era identificabile perché era marginalizzata e messa in un recinto a cui nessun altro si voleva avvicinare per paura di finirci imprigionato. Quindi, chi accettava di  stare in quel ghetto era molto chiaramente “di destra” e tutti gli altri erano contro. Quando – dopo i risultati elettorali del Msi a Roma e Napoli – Berlusconi ha “invaso” lo spazio della destra intesa come tutto ciò che era alternativo alla sinistra, stare a destra – prudentemente acconciata con l’aggiunta del  “centro” – è diventato accettabile e conveniente. All’improvviso, dopo il solito beauty contest, sono emersi con i mezzi potenti dell’apparato di Sua Emittenza, dei nuovi “intellettuali di destra”, tutti ahinoi provenienti dalla sinistra estrema. Convertiti, insomma, o folgorati sulla via di Damasco, il cui denominatore comune era l’astio o la delusione per la famiglia d’origine. Ma nessuno – per fortuna –  è in grado di cancellare ogni traccia di trenta anni di letture, conversazioni, elaborazioni quindi, in profondità, questi nuovi potenti interpreti del nuovo centrodestra, sono comunque antropologicamente altro rispetto alla destra e a quella che potrebbe essere considerata la sua cultura profonda. Grazie a mezzi più potenti hanno cancellato chi, soffrendo persecuzioni di ogni tipo, aveva tenuto acceso il cerino della cultura di destra. Come gli iconoclasti che coprivano immagini secolari con una mano di vernice nuova. Quindi, per gli ultimi venti anni, gli interpreti e rappresentanti della cultura della destra, semplicemente non erano di destra. Potrebbe sembrare un argomento capzioso, ma il punto molto semplicemente è questo. La cultura, quella che si vede e soprattutto quella con cui “si mangia”, necessita del mecenatismo della politica, o della finanza, o di tutt’e due. E quando è sembrato che la destra avesse un’influenza politica, le risorse sono andate a quelli che per i trent’anni precedenti avevano mangiato con la sinistra e improvvisamente si offrivano come interpreti del nuovo corso, qualunque esso fosse. Quindi, Pupi Avati – come in passato Galli della Loggia o Sergio Romano – hanno ragione a rimproverare alla destra di non aver saputo lasciare traccia del proprio passaggio nel comune sentire e nell’immaginario diffuso degli italiani e hanno ragione anche a ritenere che questo abbia enormemente impoverito la cultura del Paese, che è rimasta ferma a quaranta anni fa e si è avvolta su se stessa. Ma la colpa, anche in questo caso, non è dell’eventuale avversario, ma di chi, rappresentando la destra, non ha voluto o non è stato capace di pensare oltre l’oggi e a gettare i semi di un diverso domani. Nessuno ha compreso la differenza tra un quadro e un manifesto elettorale, un film e un comizio, un romanzo o una canzone e un volantino. E, purtroppo, chi aveva una buona penna ha preferito metterla al servizio di un padrone o di una carriera personale, piuttosto che di un’idea. Quasta, caro Pupi Avati, è la triste verità. Gli uomini si sono mostrati troppo piccoli per idee che forse erano troppo grandi.

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