La “Big Society” di Cameron, un approccio che farebbe bene anche al nostro governo
C’è un capitolo, nel recente saggio di Bernardo Bortolotti, “Crescere insieme”, che merita particolare attenzione. Mi permetto di raccomandarne la lettura ai componenti dell’attuale governo. È la parte del libro in cui lo studioso si sofferma ad analizzare l’idea di Big Society di David Cameron e i primi effetti delle riforme ad essa ispirate. La tesi di Bortolotti è suggestiva. La crisi finanziaria che ha sconvolto i mercati, messo in ginocchio le aziende, impoverito le famiglie e annichilito gli Stati, provocando non pochi sconquassi sociali, evoca scenari apocalittici. Si riaffacciano vecchie paure, riaffiora il pessimismo sul futuro, monta la sfiducia. Eppure non siamo alla fine del mondo. Semmai, siamo alla fine di un mondo. Per questo motivo sarebbe un grave errore equiparare questa crisi a una delle tante che abbiamo vissuto dal dopoguerra. “Alcuni sostengono – sottolinea lo studioso – che, in fondo, siamo usciti brillantemente dalla crisi messicana nel 1982, da quella asiatica del 1997, dalla crisi russa nel 1998, dalla crisi argentina del 2001, contemporanea alla bolla dei titoli tecnologici americani, riprendendo il cammino e le magnifiche e progressive sorti dell’economia capitalistica. Ma erano crisi locali o settoriali, i primi sintomi di patologie più gravi che avevano già colpito il sistema e che si sono man mano acutizzate per poi esplodere a partire dal 2007”. Stando così le cose, sarebbe un errore pensare di superarla Grande Crisi con gli strumenti e le politiche tradizionali.
Secondo Bortolotti occorrono idee nuove. Ma soprattutto bisogna cambiare paradigma perché la crisi che viviamo è anche e soprattutto culturale. Difficile dargli torto. Non serve scomodare Adam Smith per ricordare che “nessuna società può essere florida se la grande maggioranza dei suoi membri è povera”. L’aumento delle diseguaglianze, l’inaccettabile disparità di reddito, opportunità e prospettive che ormai segna quasi tutte le principali economie è il termometro di una situazione non più sostenibile. Una diseguaglianza eccessiva alla fine impedisce all’economia di crescere. Visto da tale prospettiva, il dibattito recente sulla necessità e sull’urgenza della crescita economica è mal posto: crescere ancora e più velocemente con il medesimo paradigma sarebbe controproducente per la tenuta del sistema.
La verità è che nella dicotomia teorica e pratica tra Stato e mercato, fra sfera pubblica e privata nell’economia si nasconde la patologia del sistema economico attuale. Il decorso della crisi finanziaria sta dimostrando che il mercato non si autoregola e che “paradossi della razionalità individuale causano catastrofi economiche che lo Stato non sa più risolvere”. La triste conclusione è che falliscono i mercati e falliscono gli Stati, in un tracollo economico e politico senza precedenti.
Veniamo allora alle politiche di Cameron ed al nuovo paradigma per superare la crisi. All’indomani del suo insediamento, nel luglio del 2010, il neo premier inglese annunciò la “più grande, la più impressionante redistribuzione di potere dalle èlites di Whitehall agli uomini e alle donne della strada”. L’idea di Big Society circolava da tempo nei circoli conservatori britannici. Phillip Blond, filosofo dell’Università del Sussex, l’aveva teorizzata insieme a Jesse Norman, una delle figure emergenti dei nuovi Tories. Essa , in sostanza, superava l’antico e ormai stucchevole dibattito tra Keynesiani-neostatalisti e liberalisti post-thatcheriani. Per i teorici della Big Society, questo scontro ideologico aveva prodotto soltanto guasti: un capitalismo deregolato e uno Stato ipertrofico e inefficiente. Che fare, allora ? Puntare su tre pilastri tradizionali: famiglie, istruzione e lavoro. Quando la maggioranza dei nuclei sociali potrà fare completo affidamento su queste tre basi – è la tesi del New Conservatorism – inizierà a sorgere la Big Society, secondo un procedimento che non sarà certo immediato e che avrà bisogno di un impulso decisivo da parte del governo. Quest’ultimo dovrà intervenire favorendo le aggregazioni locali e stimolare l’azione collettiva dando più potere in mano alle piccole comunità.
Al di là dei principi sanciti nel Manifesto, si tratta in buona sostanza di attuare un processo di delega dei poteri e delle responsabilità dal centro alla periferia, da Westminster ai comuni, e ancora a scendere fino alle comunità locali e i territori, accompagnando questa devoluzione dei poteri con misure a sostegno dell’impresa sociale e liberalizzazioni dei servizi pubblici locali. È la prospettiva di un capitalismo comunitario a vocazione sociale. In Inghilterra , Cameron ha iniziato a renderlo concreto con atti legislativi come il Localism Bill, il diritto di proporre formule alternative nell’erogazione dei servizi pubblici locali, il right to provide , il diritto dei dipendenti pubblici di organizzarsi in cooperative per svolgere gli stessi servizi al di fuori dell’amministrazione statale, e il right to buy il diritto del cittadino di rilevare cespiti sottoutilizzati di proprietà dello Stato per avviare attività di interesse comune. È la frontiera della nuova democrazia proprietaria. In Inghilterra se ne intravedono i primi effetti positivi. Da noi, purtroppo, si parla d’altro.