Dalla “politica” di Letta alle “politiche” per la nazione: una vecchia lezione che torna d’attualità
Avviandosi alla conclusione del suo abile, denso e impegnativo discorso programmatico, il presidente del Consiglio Enrico Letta ha fatto un riferimento che probabilmente ha sorpreso più d’uno. Rifacendosi ad un’antica lezione del suo maestro, Beniamino Andreatta, ha sottolineato la differenza che passa tra politica e politiche. Una distinzione che può sembrare marginale, ma non lo è; così come non deve apparire un colto rivestimento politologico della condizione nella quale il governo si trova ad operare, condizione indiscutibilmente “eccezionale” per stessa ammissione del premier.
La politica è il frutto della dialettica che si svolge tra forze diverse e perfino alternative; le politiche sono le soluzioni che vengono date ai problemi del Paese. La politica è “alta”, addirittura nobile, quando è capace di mettere da parte le differenze pur legittime che la connotano e superarle nel trovare le giuste sintesi appunto nelle politiche economiche, sociali, istituzionali e via dicendo.
Non è questione di lana caprina la tematica riproposta da Letta, ma un vero e proprio assunto teorico che assume le fattezze di una linea comportamentale in uno “stato d’eccezione” qual è quello che ha ispirato e imposto la necessità di varare un governo così asimmetrico quale mai si era visto nella storia repubblicana.
Se la politica, dunque, con l’intelligenza e la generosità di chi la muove è capace di aggregare, sempre nel rispetto di una normale e civile dialettica, forze tanto dissimili al fine di raggiungere i risultati soddisfacenti – ed è stato il caso della formazione dei governi dell’immediato dopoguerra – è fatale che le politiche che ne deriveranno non potranno che essere apportatrici di benefici per la nazione. Ed il beneficio maggiore sarà sicuramente quello del riconoscimento dei diversi, non più come “nemici”, ma come “avversari” capaci addirittura di allearsi per realizzare quel “bene comune” che vistosamente sta sfuggendo di mano a chi è incaricato di gestire la cosa pubblica.
La felice intuizione di Letta è tutta, dunque, in una distinzione che definiremmo “di scuola”, ma che diventa materia su cui in realtà si esercita la funzione del “buongoverno” che come scopo abbia il ritorno all’autentico confronto che non è fatto di scontri incivili, di prove muscolari e di delegittimazioni reciproche, ma si costruisca sulla forza tranquilla delle idee che s’incontrano nella stipula di un patto in cui possa ritrovarsi la maggior parte dei cittadini.
È ovviamente azzardato affermare che l’esperimento riuscirà certamente. Ma i presupposti perché partiti alternativi possano compiere insieme un tratto significativo di strada ci sono tutti. E Letta, senza farsi illusioni, ha voluto dare a questa inedita e rischiosa operazione un timbro nobile, quello appunto della ricerca di una politica comune quale fondamento a politiche risolutive di alcuni gravi e prioritari problemi del Paese.