Bersani perde le staffe con Renzi: ancora tu, ma non dovevamo vederci più?
Lo aveva detto in tutte le lingue che in caso di sconfitta non avrebbe voluto un premio di consolazione per restarsene accucciato. E ha mantenuto la promessa. Matteo Renzi torna a fare il guastafeste, attacca la dirigenza, si sfila dalle manovre di abbraccio a Grillo e, quel che fa più imbufalire il segretario, apre il file dei costi della politica rinnovando a chiacchiere la lealtà al “vincitore” Bersani. Mentre i tre ambasciatori scelti dal segretario si preparano al primo faccia a faccia con la delegazione Cinquestelle, il Peter Pan di largo del Nazareno cala l’asso dei contributi elettorali e chiede trasparenza sulle spese matte del partito. Un dossier? Ma no, spiega Renzi, «non c’è nessuna attività di dossieraggio, se ci sono da fare delle battaglie politiche, uno le fa dicendo in faccia quello che pensa. È dalla Leopolda che propongo di abolire il finanziamento pubblico…».
Finita (male) la campagna elettorale, il sindaco con la faccia da eterno bambinone, che per quaranta giorni è rimasto all’ombra del segretario in versione presentatore-chauffeur, non intende restarsene in letargo. Prima il no senza se e senza ma a Grillo, mettendo in guardia dai rischi di cercare maggioranze a tutti i costi, tanto da obbligare Bersani a replicare acidamente «Non si diffonda l’idea che siam qui ad andarci a cercare dei senatori e dei deputati. Non lo accetto. Tanto meno se viene da qualcuno di casa nostra». Tempi duri per Bersani con mezzo partito a dirgli che «non può passare quindici giorni sotto il balcone di Grillo cantando la serenata» (parole di Gentiloni) e l’altra metà a lasciarlo con il cerino in mano. Poi il capitolo sui finanziamenti pubblici alla politica. Un argomento storicamente tabù per il Pd, anche se a parole tutti i partiti promettono di abolirli, ridurli o regolamentarli con più rigore.
Lo spiega bene il direttore di Europa Stefano Menichini quando scrive che per Bersani quello del finanziamento è un «argomento urticante» (vista la difficoltà oggettiva di ridimensionare rapidamente l’apparato costoso ricevuto in eredità dai partiti fondatori) e che vederselo agitare davanti non solo da Grillo, cosa prevedibile, ma da uno di casa come Matteo fa perdere le staffe e il sonno. Ma anche Renzi va capito – dice Stefano Menichini – «c’è totale incompatibilità tra lui e il palazzo del Nazareno, inteso come luogo fisico, persone che lo abitano. Tutte le sue speranze di farcela sono legate al fatto che questa incompatibilità sia evidente, ribadita, conclamata davanti all’elettorato». Se non ci sono autostrade da percorrere, come ha detto lo stesso Bersani, il segretario ha davanti a sé due strade strettissime e scomode: il vicolo cieco che porta a Grillo e il viottolo che porta a Renzi. Il quale non scommette un euro sull’intesa tra Pd e Cinque Stelle, non vede l’ora di votare e magari di ricandidarsi premier. Di sicuro Palazzo della Signoria è tornato a stargli stretto.