Le risposte sbagliate di Zingaretti sugli extra che prendeva in Provincia

14 Feb 2013 8:11 - di Marcello De Angelis

Bocche cucite tra i maggiorenti della sinistra capitolina, mentre un grande nervosismo serpeggia nel comitato di Nicola Zingaretti: la notizia, in realtà non nuovissima, come vedremo, è esplosa come una bomba sul Corriere.it da sole 48 ore, ma il clima nella Capitale è cambiato e anche per la Regione l’allegra comitiva della coalizione zingarettiana sembra aver smarrito la certezza della vittoria finale.

Il fattaccio è di quelli brutti, cose che fanno arrabbiare la gente perché evocano tutte le peggiori sfumature delle più recenti porcate attribuite all’arroganza della casta. Intanto le persone normali scoprono che ancora oggi, con i soldi provenienti dal finanziamento pubblico ai partiti, cioè dei cittadini, Bersani e compagni alimentano un vorticoso giro di “paghette” nazionali, sotto forma di stipendi di “funzionari”. Metafora dietro la quale si nasconde un sistema di governo politico del partito che prevede premi di consolazione e strumenti di sussistenza per finanziare le spese quotidiane della nomenclatura interna. Studiando da vicino il caso si apprende che il coordinatore regionale del Partito democratico percepisce di norma 5.000 euro lordi al mese provenienti dal bilancio del partito. Per la verità non è l’unico: anche il vice, talvolta, riceve una retribuzione di poco inferiore: un signor salario per entrambi che mediamente si attesta tra i 2.800 e i 3.000 euro netti. Altri rimborsi sono previsti per gli incarichi nazionali e in questo modo si riesce a supplire ai tempi di vacche magre elettorali. In pratica se perdi le elezioni ma hai un certo ruolo nel partito, arriva il soccorso rosso della nomina regionale che ti aiuta a sbarcare il lunario. Fin qui ci muoviamo semplicemente nel cattivo gusto e nell’anacronismo politico. Il caso Zingaretti aggiunge elementi di colore a questo impianto surreale. Nicola Zingaretti, infatti, da coordinatore regionale dei Ds, era titolare di un contratto simile a quello di molti suoi colleghi che prevedeva una retribuzione lorda di 5.000 euro mensili che non percepiva, essendo in aspettativa come parlamentare europeo fino al fatidico inizio dell’anno 2008. Già nell’ottobre del 2007, si era avviata sotto la spinta veltroniana la fusione tra i Ds e la Margherita: a farne le spese fu in compianto Mario Di Carlo, coordinatore regionale della compagine rutelliana, in favore proprio di Nicola Zingaretti che divenne coordinatore unico del neonato Pd laziale. Nel febbraio del 2008 fu proposto come candidato del Pd alla presidenza della Provincia di Roma. Alla vigilia della conferenza stampa di presentazione della candidatura, come ben ci ricorda l’esposto presentato alla Procura della Repubblica dai Radicali, Zingaretti sottoscrive un nuovo contratto con il “Comitato provvisorio del Pd” con un balzo retributivo che porta ad 8.000 euro lordi mensili il suo stipendio. Oggi Nicola Zingaretti giustifica quella operazione come un atto dovuto a “riconoscimento professionale” al coordinatore regionale. Dopo essere stato eletto presidente, il nostro Nicola si dimette da coordinatore regionale. Gli succede, infatti, nel giugno 2008, Roberto Morassut, con il quale si apre una girandola di nomine sullo sfondo della crisi del Pd dopo la sconfitta disastrosa di Veltroni alle elezioni politicihe. Già nell’ottobre dello stesso anno diventa infatti coordinatore regionale il viterbese Mazzoli, rimasto disoccupato elettoralmente a causa dei rovesci elettorali subiti dal Pd nella Tuscia, per cedere a sua volta il passo ad un commissario nazionale della portata di Vannino Chiti che nel 2010 prende le redini del partito laziale. Bisogna aspettare l’arrivo di Gasbarra per ricostruire degli equilibri stabili che ci portano fino al Pd dei giorni nostri. È inevitabile notare due fatti che tolgono ogni credibilità alle giustificazioni di  Zingaretti: il primo è che nessuno, ne’  Morassut, ne’ Mazzoli, ne’ Gasbarra, benché ascesi alla medesima carica di partito ricoperta dal presidente della Provincia di Roma, hanno mai percepito un’indennità mensile di 8.000 euro lordi, per ragioni diverse ma comunque comprensibili: Morassut e Gasbarra, infatti, nonostante la nomina non sono mai stati chiamati a sottoscrivere nuovi contratti “maggiorati”. Anzi, per quel che siamo riusciti a capire, Gasbarra non ha a tutt’oggi nessun legame contrattuale con il suo partito – o comunque non lo dichiara al Parlamento e quindi non può esserci null’altro che qualche rimborso spese – mentre Morassut mantiene i rapporti contrattuali che ha sempre avuto senza alcuna maggiorazione e provvedendo ad aggiornare i contributi figurativi di tasca propria come qualunque altro deputato. Sul caso Mazzoli siamo meno informati, ma è lecito supporre che abbia per il breve tempo che è stato in carica la normale indennità di 5.000 euro lordi. Dunque la prima domanda che è lecito porsi è: perché mai il solo Nicola Zingaretti ha potuto vedersi riconosciuto un trattamento economico così elevato? La risposta ingenuamente la ha già data il suo addetto stampa, quando ha spiegato che il suo principale, dimettendosi dal Parlamento europeo per candidarsi alla presidenza della Provincia, aveva rinunciato all’indennità parlamentare e, aggiungiamo noi, al più che soddisfacente trattamento pensionistico riservato agli eurodeputati. Di conseguenza, in caso di sconfitta con il suo sfidante di centrodestra Alfredo Antoniozzi, questo contratto gli avrebbe garantito una certa stabilità nel tenore di vita raggiungendo, con l’indennità prevista per un semplice Consigliere provinciale, uno stipendio vicino ai 10.000 euro al mese. In sostanza quel contratto era una specie di paracadute, destinato ad aprirsi a spese dei cittadini: in base alle vigenti disposizioni di legge il partito avrebbe potuto chiedere il rimborso per intero alla Provincia degli 8.000 euro di spettanza per il suo dipendente, garantendo così a Zingaretti una vita serena senza alcun danno per i propri bilanci. Come è noto Nicola Zingaretti, invece, vinse quelle elezioni, diventando presidente. A questo punto, diventando titolare della remunerativa indennità di presidenza, non gli rimase che mettersi in aspettativa. E qui arriviamo alla seconda e più incontestabile lacuna della sue fragili giustificazioni: se infatti Zingaretti aveva come unica giustificazione della sua super paghetta da 8.000 euro la nomina ricevuta a coordinatore regionale, perché mai, perduta quella carica appena quattro mesi dopo aver firmato il contratto, ha continuato a pretendere dalla Provincia di Roma il pagamento di contributi figurativi e l’accantonamento del suo Tfr? Soprattutto perché ha preteso che tutto ciò continuasse fino ad oggi, per un controvalore di 100.000 euro, giustificato da un incarico che non è più nelle sue disponibilità da cinque anni. È questo il nodo che dovranno sciogliere gli inquirenti sia dal punto di vista della Magistratura sia dal punto di vista della Procura sia da quello della Corte dei Conti, perché almeno sul piano dell’opportunità nessuna persona intellettualmente onesta può mettere in dubbio che Nicola Zingaretti aveva il dovere di annullare quel contratto un minuto dopo la sua elezione. Nel merito non c’è molto altro da aggiungere, se non un riconoscimento al consigliere di opposizione del Pdl che per primo, in un’interrogazione del 2009 sollevò la questione, del quale ci occupiamo in altra parte del giornale. Aggiungendo una considerazione di stile: in taluni momenti della violenta polemica che ha opposto Zingaretti a Pannella in questa desolante vicenda, il primo è parso a tratti amareggiato, avvilito, dichiarandosi sorpreso che qualcuno lo potesse sospettare capace di basse speculazioni per migliorare il suo trattamento pensionistico. C’è un modo molto semplice per dimostrate di essere al di sopra di certe cose, riconoscendo i propri errori ma riportandoli al tempo stesso nell’ambito della colpa e non del dolo: basta restituire 100.000 euro alla Provincia e chiudere così ogni polemica. E magari cambiare il leit-motiv della sua campagna elettorale che promette – se lui vincesse alla Regione –  maggiore trasparenza sulle spese e niente più giochi strani coi rimborsi ai gruppi e ai consiglieri. Diciamo che ora, fatta da lui, la promessa non sembra molto verosimile.

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