Una storia d’amore, di viaggi e di passione
Nel divenire perpetuo dell’esistenza umana c’è forse un’unica certezza inamovibile. Un istinto forte al quale non ci si può sottrarre. Qualcosa di molto profondo, presente in ogni epoca e ad ogni latitudine, su cui nulla sembrano potere le vicende della quotidianità che si agitano in superficie. Stiamo parlando di quello che, per effetto del processo di semplificazione linguistica imposto dalla modernità, siamo abituati a chiamare sbrigativamente amore. Nell’antica Grecia la terminologia utilizzata per definire questa nostra preziosa essenza era decisamente più specifica: si parlava di Agape per significare amore incondizionato per qualcuno o qualcosa. L’amore corrisposto si chiamava Anteros. Pothos era il desiderio e il sogno. Storge l’amore d’appartenenza, come quello tra consanguinei. Ecco, “Mare vecchio” – l’opera prima di Donatella Corridore, pubblicata da Viator e in uscita a gennaio in libreria – ci racconta una magnifica e struggente storia d’amore. Amore inteso in tutte quelle classicheggianti declinazioni. Una storia che poi è la vera straordinaria storia dell’autrice, della sua infanzia e della sua vita.
“Mare vecchio” in fondo, proprio come ogni storia d’amore, è un viaggio. Per essere più precisi è il viaggio fisico e catartico dell’autrice sulle tracce delle sue origini d’italiana di Libia, nel solco di un passato fatto di altri viaggi: tra la Sicilia e l’Africa; tra le tempeste private della propria famiglia e quelle pubbliche di un Paese, come quello libico, attraversato dalle vicende drammatiche della seconda guerra mondiale prima e del colpo di stato di Gheddafi poi. Un viaggio che si spinge fino alla rivolta della Primavera Araba che in tempi più recenti ha portato alla capitolazione del sanguinoso Raìs.
La storia ruota tutta attorno a un uomo straordinario e alle sue gesta. Si tratta di Ruggero Bondìa, un possidente siciliano – nonno dell’autrice – che, disinteressato delle sue proprietà, s’innamora perdutamente del mare e di quel pezzo d’Africa a sud della sua Sicilia. Un amore così grande che lo porterà presto a considerare il territorio libico la sua vera patria e a fondare, proprio lì a Bengasi, l’Agenzia marittima italiana di trasporti, sdoganamenti e spedizioni che diventerà la più importante di tutto il Mediterraneo. È la passione per la propria terra – elettiva o d’origine che sia – la prima delle forme d’amore che fanno da sfondo e in qualche modo determinano tutte le vicende raccontate nella storia. In “Mare vecchio” l’amore così autentico e puro che Bondìa nutre per la “sua” Libia – coi suoi colori, il suo deserto e i suoi uomini blu – si specchia in quello che Italo Balbo e i suoi camerati provano nei confronti della “loro” Italia fascista che in quegli anni reclama un “posto al sole”. Del resto, se è vero – come insegna il barone Julius Evola quando scrive “la mia patria è l’Idea” – che i confini della patria possono essere cercati non solo nell’orizzonte geografico, ma anche in quello spirituale, l’ “esploratore” Bondìa si trova in Libia esattamente per la stessa ragione che anima il maresciallo dell’aria Balbo. Entrambi sono lì per una ragione d’amore di patria. Una ragione così diversa e così uguale. Non a caso il titolare dell’Agenzia marittima italiana si sente ideologicamente vicinissimo al governatore di Libia, alla sua avversione nei confronti della legge razziale e alla sua politica d’integrazione tra popolazione locale e coloni.
La storia che ci racconta la Corridone, però, non si ferma in terra africana. Il viaggio continua e sempre attraverso il mare – che “non è amico di nessuno”, come diceva il nonno alla piccola Donatella – Bondìa raggiungerà l’India e quindi il Tibet. Ma stavolta non sarà un viaggio piacevole. Siamo nel 1940 e il fondatore dell’Agenzia marittima, arruolatosi nell’esercito italiano con il grado di ufficiale, viene catturato dagli inglesi e imprigionato nelle terre fredde e lontane alle pendici dell’Himalaya. È il dramma della prigionia di guerra che dura sei lunghi anni. Bondìa ne uscirà vivo e, dopo essere tornato per un breve periodo in Sicilia, si arrenderà ancora al richiamo della sua vera casa, la Libia, dove ad aspettarlo troverà la sua “famiglia”: Malika, fedele governante, e Kamil, un bimbo (diventato ormai uomo) che prima della guerra Bondìa aveva salvato da morte certa. Sono anni gioiosi che rivivono nei ricordi dell’autrice e che animano le pagine del libro con immagini straordinarie come le spettacolari qitar (carovane) dei cammelli; le pietre trasparenti lavorate dagli artigiani berberi; i veli colorati dei Tuareg.
La piccola Donatella è spesso a Bengasi con il nonno, Malika e Kamil. Sembra proprio che quella amorevole famiglia “di fatto” sia destinata a non dividersi mai più, ma purtroppo non sarà così: nel 1969 arriva il colpo di stato di Gheddafi e la separazione sarà drammatica. Sanguinosa. Forse è il capitolo in cui il racconto dell’autrice si fa più empatico e sofferto. Ogni frase diventa un pugno nello stomaco. Ogni parola un macigno. Si chiude con la “Stella del Sud” – l’imbarcazione di Bondìa con la quale questo straordinario viaggio era iniziato – che salpa per l’ennesima volta verso la Sicilia. Stavolta però è una fuga dolorosissima che segue a una separazione struggente. A bordo ci sono solo il nonno e sua nipote abbracciati stretti stretti nel buio, sotto la solita coperta di stelle che quella notte, però, sembrano spente. Arriveranno in Sicilia e da lì la piccola Corridore partirà alla volta di Roma dove, con i suoi genitori, si stabilirà definitivamente. Per dimenticare. Per continuare a vivere. Il viaggio va ancora avanti, ma noi dobbiamo fermarci qui. Quello che possiamo dire è che c’è un lieto fine e tutto sommato non poteva che essere così: in fondo ogni storia d’amore – anche quella più sfortunata – è una storia lieta, e a noi non resta che viverla con coraggio. Fino alla fine, comunque vada.