Il giorno che durò vent’anni

25 Nov 2012 0:02 - di

Scrivere un libro sulla Marcia su Roma è una sfida pericolosa. Un po’ perché si è già quasi detto praticamente tutto su quanto accaduto, e anche perché si rischia sempre di cadere nella categoria storiografica del “nostalgismo” se si finisce a scrivere con un certo cipiglio oppure, al contrario, si vira verso una militanza un po’ retrodatata.
Per Antonio di Pierro, autore del libro “Il giorno che durò vent’anni”, (Mondadori), non si è trattato di nessuno dei due casi. Infatti, il testo affronta con una onestà i fatti per come sono andati. Si tratta, a tutti gli effetti, di una cronistoria, che ha dalla sua la volontà di non andare oltre la mera descrizione dell’avvenimento storico. Ovviamente, per compiacere il lettore, che si annoierebbe facilmente nel leggere una cronologia di azioni quasi stenografica, è stato compito dello scrittore provare a penetrare nella personalità dei personaggi; non tanto, però, da snaturare il vero obiettivo del libro, quanto per dare una lucida descrizione del complesso di azioni che hanno portato, tutte messe in fila come una spiegazione elementare, la nascita del primo governo Mussolini.
Solo una frase lascia un po’ perplessi: «Sembra passato un secolo da quella notte. Manganelli, olio di ricino e opportunismi hanno fatto il miracolo». Una presa di posizione che forse getta un po’ di dubbio su tutto il lavoro precedente? È un libro che si occupa di azione. Di purissima azione. Non sembra che l’autore parteggi per una o l’altra fazione. Come pure si trova facilmente in molti libri di storia; neppure una pur piccola parvenza di partigianeria viene fuori dal testo. Si capisce con facilità come non sia stato facile cercare di barcamenarsi tra un voler descrivere solo i fatti, pur tentando di andare oltre i fatti per cercare di consegnare al lettore una sorta di comprensione del fatto storico. La lezione di Montanelli è ancora viva.
È il rischio principale dello storico abbandonarsi al desiderio di salire in cattedra e “spiegare”; ma nell’ermeneutica della storia il compito dell’interpretazione è quanto di meno storico possa esserci. E Di Pierro ci è riuscito con entusiasmo a evitare le sue spiegazioni. Dando al lettore la possibilità di entrare nelle stanze del Quirinale, dove il re è seduto sulla poltrona cercando di temporeggiare per capire cosa farne del decreto di assedio propostogli da Facta. Oppure, quando si è catapultati a Cavour, nello studio di Giolitti, dove l’anziano statista sta cercando di capire quale sia la migliore mossa da fare per evitare di cadere nel ridicolo. L’autore descrive, sta al lettore capire.
Ci si immedesima in Italo Balbo e nel suo furore giovanile, oppure nella saggezza temporeggiatrice di De Vecchi. Nel fervore nazionalista di Federzoni, e si seguono con curiosità le mosse di Salandra.
Mussolini è trattato come un qualsiasi altro personaggio storico, senza particolare adulazione o discriminazione. Anche questa una rarità degna di menzione. È ancora lontana la storiografia, in Italia, che sappia solo descrivere? Forse non così tanto poi.

 

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