L’ultimo sorriso di Mario Zicchieri

29 Ott 2012 20:33 - di Antonio Pannullo

Mario Zicchieri era un ragazzo di sedici anni che fu assassinato 37 anni fa, nel quartiere Prenestino a Roma, da un commando di terroristi vicini alle Brigate Rosse. Oggi avrebbe 53 anni, se quel 29 ottobre fosse scampato all’agguato davanti alla sezione del Msi del popolare quartiere. Per il suo omicidio non è mai stato punito nessuno. I brigatisti rossi Morucci, Seghetti e Maccari, indicati come coinvolti nella vicenda da un pentito nel 1982, sono stati assolti in appello. E così la morte di “Cremino” è rimasta impunita, come per tanti, troppi, giovani attivisti missini degli anni ‘70: Angelo Mancia, Paolo Di Nella, Francesco Cecchin… Erano morti di serie B, hanno accusato in questi anni i familiari di Zicchieri, e non valeva la pena indagare troppo a fondo. Forse è così, perché in quegli anni era vero che uccidere un fascista non era reato. Anzi, per qualcuno, anche un titolo di merito. Sì, perché quegli anni non furono affatto formidabili, ma terribili: quando i terroristi dell’estrema sinistra avevano il loro battesimo del fuoco sparando su inermi ragazzi davanti alle sezioni dei “nemici”, come accadde ad Acca Larentia, in via Zabarella a Padova, al Prenestino, vuol dire che si sono persi di vista tutti i punti di riferimento politici, morali e sociali. Era come se una gigantesca ubriacatura si fosse impadronita delle frange estreme della sinistra, che nel suo delirio coinvolgeva anche fasce di giovani tendenzialmente più moderati. Ma allora l’antifascismo era un collante che funzionava sempre, specie se condito col furore quasi religioso di chi crede solo alla sua ragione. E allora attentati, manifestazioni, assalti, agguati, colpi di pistola e di mitra, bombe contro coloro che erano dipinti come l’incarnazione del male, gli esponenti del Msi. E l’odio diventava tanto più cieco quando i militanti missini, come nel caso del quartiere Prenestino, non accennavano a mollare, persistendo nella loro permanenza fisica e nell’attività politica e sociale in una zona che per definizione doveva essere “rossa”. Non piaceva a chi controllava il territorio: i “fascisti” dovevano sparire, soprattutto se stavano facendo un buon lavoro.
E quel giorno i terroristi decisero di colpire: spararono con fucili a canne mozze ai tre giovanissimi che stavano davanti alla sezione di via Gattamelata. Claudio Lombardi era uno di questi giovani, che insieme ai suoi coetanei Mario Zicchieri e Marco Luchetti stava presidiando la sede in attesa che fosse ripristinata la porta blindata fatta saltare in un attentato avvenuto pochi giorni prima. Dentro i locali c’era un operaio che stava ripristinando una grata interna dalla quale ignoti avevano tentato di entrare la notte precedente. «Sì, mi ricordo ancora tutto di quel pomeriggio – racconta Claudio Lombardi in procinto di andare alla commemorazione per Mario che ogni anno si svolge al Prenestino – Eravamo solo noi tre, che stavamo aspettando il fabbro per rimontare il portone. Oggi stupisce pensare che per fare attività politica ci fosse bisogno di una porta blindata, ma allora le cose andavano così: ci venivano a cercare per eliminarci fisicamente di notte e di giorno, la sera spesso non potevamo rientrare in casa perché ci aspettavano, la sede era oggetto di attentati frequentissimi – ricorda Lombardi – E non solo la sede veniva colpita, ma anche le case, le automobili, gli esercizi commerciali degli iscritti al Msi o dei frequentatori della sezione, come sa bene il ferramenta all’angolo…». Ma quel 29 ottobre, secondo una strategia che secondo Lombardi era pianificata, lo scontro si sarebbe dovuto alzare di livello: «Saranno state le cinque, io ero al centro davanti la porta, Marco Luchetti alla mia destra appoggiato all’ingresso e Mario Zicchieri alla mia sinistra. Arrivò questa 128 chiara e ne scesero due persone che indossavano un trench, con scoppole e occhiali da sole. Scesero, estrassero i fucili e si apprestarono a sparare. Sono vivo soltanto perché ci sottoposero a un fuoco incrociato: ossia ognuno sparava in diagonale, con il risultato che Mario e Marco vennero colpiti in pieno, mentre io mi salvai tuffandomi letteralmente dentro i locali della sezione». E continua: «Mentre ero per terra sentii sette od otto boati fortissimi, i colpi dei fucili, poi entrò Marco massacrato di pallettoni, perdeva moltissimo sangue, tanto che un poliziotto in borghese si sfilò la cintura per fermare l’emorragia alle gambe. Io uscii, in stato di choc, vidi Mario per terra colpito al basso ventre, mi chinai su di lui, gli presi la mano… ricordo solo, e lo ricorderò per tutta la vita, che sorrideva e scuoteva la testa come per dire “no, no”… Forse voleva rassicurarmi che stava bene, che non gli avevano fatto niente, non saprei dirlo. Ricordo solo quel sorriso dolce…». Lombardi fermò immediatamente una macchina che passava per fare condurre i feriti all’ospedale. In capo a pochi minuti sul posto si radunarono centinaia di missini, tra cui lo stesso segretario della sezione Luigi D’Addio, forse il vero bersaglio dell’attentato, come è stato scritto in questi anni, ma nessuno potrà mai dirlo. «Eravamo tutto sconvolti», conclude. Dopo l’omicidio ci furono scontri, sia con la vicina sezione del Pci sia con la polizia, e la tensione rimase altissima per molti giorni nel quartiere.
Negli anni successivi la famiglia di Mario lottò con tutte le sue forze per conoscere la verità, per avere giustizia, ma mai chiedendo vendetta né odiando, nonostante le successive persecuzioni cui furono sottoposte la madre, che perse il posto di lavoro, e le giovani sorelle, che avevano 12 e 13 anni, che in seguito a questo dovettero addirittura cambiare scuola. Ma a oggi non c’è ancora chiarezza su questo e su altri omicidi politici, nonostanti  numerosi appelli della mamma agli esponenti delle Brigate Rosse affinché rivelassero una buona volta la verità su quella stagione di sangue e di odio. Erano morti di serie B i missini. Si sarebbero dovuti attendere 36 anni, ossia il 2011, prima che un’amministrazione, quella del sindaco Alemanno, decidesse di dedicare un giardino a Mario Zicchieri, al Pigneto, a meno di 200 metri da dove fu ammazzato. «Mario – aggiunge il suo antico amico – andava in palestra, era uno scout, frequentava la chiesa del Pigneto, si impegnava per gli altri, aveva il senso della comunità…». Ma soprattutto aveva 16 anni.

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