Corruzione, Monti si fa bello con la legge Alfano
Dopo il dirompente caso Fiorito, la nuova parola d’ordine è quella di sbrigarsi ad approvare nel più breve tempo possibile nuove norme sull’incandidabilità di chi ha riportato condanne penali. In questo clima Monti, sull’onda dell’indignazione generale, improvvisamente si è svegliato rispolverando il provvedimento varato dall’allora governo Berlusconi scippandone la titolarità. E, come è già accaduto tantissime altre volte, è subito entrata in campo la disinformazione che ancora una volta ha trasformato edulcorato l’immagine di Monti. Intere paginate sono state dedicate a lui e al “suo” pacchetto di norme che permetteranno alle prossime elezioni di avere liste più pulite. Un vortice di mistificazione che ha fatto dimenticare a tutti, forse scientemente, che queste norme erano antecedenti al governo dei tecnici ed erano contenute nel ddl Alfano che, appunto, suggeriva di vietare la candidatura a ladri e corrotti condannati in via definitiva. I fatti e le date parlano chiaro.
Il via libera al disegno di legge fu dato dal Consiglio dei ministri, presieduto da Silvio Berlusconi, il primo marzo del 2010. Il disegno di legge, che contiene “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” fu elaborato dai ministri Alfano, Brunetta, Calderoli e Maroni ed era composto da una serie di norme che miravano a prevenire i fenomeni corruttivi e a rendere virtuoso il comportamento della pubblica amministrazione, sanzionando chi si sarebbe comportato in maniera infedele. Il provvedimento approvato era distinto in tre capitoli: una disciplina contro la corruzione negli enti locali, un piano anticorruzione, e nuove norme sanzionatorie. «Abbiamo aumentato le pene per reati che a nostro parere – aveva sottolineato il Guardasigilli – non avevano adeguate sanzioni, dato il loro particolare disvalore sociale». Contro la corruzione furono varate iniziative a medio e lungo termine che rispondevano alla domanda di trasparenza e controllo proveniente dai cittadini e alla necessità di adeguare l’ordinamento giuridico agli standard internazionali, in funzione del mantenimento della credibilità del Paese. In primo luogo venne previsto il Piano nazionale anticorruzione. Una rete nazionale anticorruzione, composta da referenti di ciascuna pubblica amministrazione, avrebbe dovuto fornire al Dipartimento della funzione pubblica elementi per valutare l’idoneità degli strumenti adottati, al fine di definire programmi informativi e formativi per i dipendenti pubblici che favoriscano il corretto esercizio delle funzioni ad essi affidate, nonché monitorare l’effettiva attuazione dei singoli Piani di azione. Nascevano nuovi obblighi: per le pubbliche amministrazioni quello di pubblicare sui siti istituzionali informazioni relative a procedimenti amministrativi “sensibili” (quelli cioè che hanno ad oggetto autorizzazioni, concessioni, appalti pubblici, erogazioni di benefici economici a persone o enti pubblici o privati, concorsi e progressioni di carriera); per le stazioni appaltanti quello di trasmettere, tempestivamente e direttamente all’Autorità di vigilanza, tutti i dati relativi a contratti di lavori, servizi e forniture, al fine di realizzarne l’anagrafe e consentire la conoscibilità, per gli operatori di settore e per gli stessi cittadini, dell’attività contrattuale posta in essere dalla pubblica amministrazione, nonché dagli altri soggetti tenuti al rispetto della normativa sugli appalti pubblici. Non solo. Il ddl anticorruzione introduceva anche le cosiddette “liste pulite” per i parlamentari. Il ministro della Semplificazione Roberto Calderoli aveva infatti presentato una “proposta emendativa” al testo entrato in Consiglio dei ministri in base alla quale era stata prevista «l’ineleggibilità alle cariche di deputato e senatore per coloro che sono stati condannati, con sentenza passata in giudicato, per i reati di cui alla lettera B dell’articolo 58 del testo unico degli enti locali, per un periodo di cinque anni». Un provvedimento complesso che, come aveva spiegato Alfano, aveva avuto «il pieno sostegno del Pdl e della Lega» e c’era stata «anche la volontà ferma di Berlusconi di procedere a una normativa ampia che riguarda non solo gli aspetti sanzionatori ma che sia in grado di garantire una maggiore efficienza e un buon governo». La prima lettura del testo alla Camera era avvenuta l’11 maggio del 2010, da allora il ddl anticorruzione si è impantanato nei meandri delle commissioni di Camera e Senato. Su alcuni punti controversi riguardanti le compatibilità costituzionali era stata data la delega al governo. E si era perso tanto tempo perché soprattutto il Pd aveva assunto un atteggiamento di ostruzionismo strisciante, infarcendolo di mille altri argomenti che nulla avevano a che spartire con l’anticorruzione e che indubbiamente allungavano i tempi per approvarlo. Ora il tema è diventato bollente, c’è l’esigenza di approvare nel più breve tempo possibile il ddl che è al Senato. Ieri mattina il ministro Paola Severino ha depositato al Senato tre emendamenti al ddl anticorruzione. Si tratta di modifiche all’articolo18, sul fuori ruolo dei magistrati, alla corruzione tra privati e al traffico di “influenze illecite”, fortemente voluto dal Pd e ritenuto assolutamente non pertinente dal Pdl, che sinora si è opposto. La complicità dei media ha così permesso allo stesso Pd e ai “compagni tecnici” di far passare l’assurda mistificazione secondo la quale sia proprio il Pdl – partito dei corrotti – a ostacolare l’approvazione dell’anticorruzione. Basta ricordare invece le date per rendersi conto che per due anni è accaduto proprio il contrario. Ora, la mistificazione è giunta fino ad affermare che le norme in esame le abbia inventate il governo Monti per rispondere all’emergenza creata dal caso Fiorito… Intanto in merito alle incandidabilità il ministro della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi ha spiegato che «l’esercizio della delega richiede un decreto legislativo del governo in doppia lettura intervallato dai pareri delle Camere». In sostanza, scarica tutta la responsabilità dell’approvazione del testo alle Camere.