Quando Marrazzo era vittima del Cav…
Se è comprensibile l’associazione mentale tra le feste del burlesque di Arcore e quelle all’amatriciana di Ulisse – soprattutto se in entrambi i casi le sintetizzi nella suggestione orgiastica del termine “festino” – l’idea di cavalcare l’evento “cafonal” del consigliere De Romanis per chiedere le dimissioni della Polverini è un’operazione (questa sì) veramente troppo osè. L’ha fatti ieri Repubblica con un lungo articolo del vicedirettore Massimo Giannini in cui solo nel finale si ricorda la vicenda del governatore Marrazzo, quasi fosse un dettaglio marginale e scomodo alla tesi di fondo. In quell’editoriale si sostiene che la festa omerica del Foro italico rientrerebbe nel più vasto e conclamato fenomeno di “sprecopoli” della Regione Lazio, di cui la Polverini dovrebbe in qualche modo assumersi la responsabilità politica. La logica che muove Repubblica si basa su uno dei tanti paradossi di questa vicenda che vede protagonisti i consiglieri regionali del Pdl in una dinamica di errori, truffe ed immoralità che in tutti i modi si cerca di caricare su chi si ha realmente interesse a colpire, il presidente: a lei si chiede di mollare per aver partecipato per pochi minuti a una festa privata della quale non è dimostrato né che sia stata organizzata con i fondi pubblici né tantomeno che siano stati commessi dei reati. A meno che in Italia non valga la legge coranica che considera peccato e reato sia vestirsi da maiale che toccare la coscia a una ragazza in minigonna. Similitudini con il caso Marrazzo e le sue dimissioni, poi, non se ne vedono. In quel caso c’era un governatore che con auto di servizio e scorta si assentava dal lavoro per svolgere attività private, che passavano anche dal consumo di droga e frequentazioni di soggetti poco raccomandabili. Tutto – lecito o solo inopportuno – fatto in prima persona dal presidente. Eppure in quell’ottobre del 2009, quando scoppiò il caso dei trans alla Regione Lazio, Repubblica non adottò la la stessa linea tranchant di oggi con la Polverini, anzi: in quei giorni sposava la linea del low profile etico con il governatore di centrosinistra, al quale mai nessuno, da Largo Fochetti, chiese di dimettersi. Neanche Scalfari, che citò Marrazzo solo come uno dei tanti nodi della politica italiana di quel periodo, mezza riga, non di più. A quei tempi la responsabilità maggiore di quello scandalo, secondo il quotidiano vice-diretto da Giannini, era ovviamente di Silvio Berlusconi, colpevole di aver saputo delle foto di Marrazzo con i trans e di averlo chiamato per garantirgli che quelle immagini non sarebbero state pubblicate. Quello, per Repubblica, era un ricatto, la macchina del fango in azione. «L’affaire Marrazzo non è una storia di sesso e il sesso non è il focus della storia. L’affaire ci espone, nei suoi ingranaggi, una “macchina del fango” di cui già avevamo avvertito la pericolosità. È la “macchina del fango”, il cuore di questa storia. Il sesso l’alimenta. Le abitudini private di un ceto politico, amministrativo, professionale, imprenditoriale sono o possono diventare il propellente di un dispositivo di dominio capace di modificare equilibri, risolvere conflitti, guadagnarsi un silenzio servile, azzittire e punire chi non si conforma, mettere in fuori gioco o espellere dalla competizione politica gli avversari….», scriveva il quotidiano. Oggi, invece? Per Giannini, che scarica sulla Polverini le colpe politiche di una festa “ruffiana,villana, buzzurra, di una certa destra romana, di un rozzo carnasciale capitolino”, quello è “fango autoprodotto”. Gira che ti rigira, dunque, il fango è sempre specialità della casa delle libertà. E se di fango parla il giornale, che ha vissuto mesi sui racconti erotici della D’Addario e sugli autoscatti di Arcore con panorama di bidè, il paradosso diventa quasi delirio. Anche perché quel fronte politico dal quale, secondo Repubblica, nel 2009 arrivava il fango su Marrazzo, mai come in quel caso non praticò alcuno sciacallaggio politico. Giuliano Ferrara, dalle colonne del Foglio, difese il governatore e parlò di “deriva sessuofobica” mentre Silvio Berlusconi spiegò, a domanda precisa: “Si è detto che lei avrebbe potuto in qualche modo ricattarlo, che ne pensa?”. «Mi sono comportato esattamente al contrario. Probabilmente proprio il contrario di come si sarebbe comportato qualche leader della sinistra».
E la Polverini? «Non parlo di vicende personali», esordì in apertura di campagna elettorale. E neanche una volta, fino al voto, e anche dopo, pronunciò la parola “trans”. Al punto che perfino un quotidiano non certamente amico come il Messaggero, dovette convenire: «Le chiedono che ne pensi, ma lei resiste al pressing e al trash. Ha scelto giustamente – e le va dato merito – di non usare il sex-gate nella sua campagna elettorale».
Ma c’è anche da chiedersi come mai se oggi una festa in maschera come quella di De Romanis – ammesso che fosse rozza e volgare – viene utilizzata contro la Polverini come metafora del festino selvaggio, lascivo, immorale che squalifica la politica, due anni fa Repubblica si dedicasse a una (superflua) arringa difensiva, con tanto di citazioni mistiche e filosofiche, del fenomeno della transessualità. “Bisessuali erano le divinità indiane Dyaus e Parusa, egiziane come il dio Bes, greche come Dioniso, Attis, Adone. A differenza dell’uomo, infatti, il Dio rappresenta quell’unità primordiale di cui la bi-sessualità è un’espressione….”. Ma Marrazzo non colse i segni dell’Olimpo e si dimise lo stesso, alla faccia di Zeus e di Ezio Mauro.