Monti racconta ancora le favole e pensa che ci sia chi gli crede
Dice di aver «persuaso» gli italiani che – secondo lui – non sono ostili al governo e magari sono anche contenti di pagare un mare di tasse. Racconta che il 2013 sarà l’anno di crescita, ma non si sa né come né perché. Giura che l’Italia non è più tra i Paesi che hanno problemi (e anche qui non se ne capisce il motivo). Mario Monti continua il suo tour parlando a più non posso, ma tenendo i dati ben chiusi nella sua borsa. È andato a cena con Obama, è intervenuto al convegno dell’Ocse, poi gli appuntamenti all’Assemblea generale dell’Onu e gli incontri con analisti e investitori. Sembra quasi un tour elettorale, manca solo il camper con i manifesti, lui però assicura di non volersi candidare. Comunque sia, secondo il suo pensiero, va tutto bene, siamo passati dall’inferno al paradiso con una strizzata d’occhio.
In una situazione di crisi come l’attuale, però, contano soprattutto le assicurazioni che il premier è in grado di dare. Gli “gnomi” della Borsa, infatti, ascoltano le parole ma operano sui mercati sulla base dei risultati economici che questi sono in grado di garantire loro. Un Btp, in sostanza, viene comprato non perché Monti si è rivelato bravissimo nel ballare il valzer in trasferta, ma perché garantisce un ritorno economico appetibile, in termini di certezze sulla stabilità del Belpaese o di cedole generose quanto basta. Noi, in questo momento, non avendo la capacità di tranquillizzare i mercati con la forza della nostra economia e con strategie credibili, ci dissanguiamo pagando interessi. La Germania colloca i suoi bund offrendo addirittura rendimenti negativi. Un’equazione piuttosto semplice. Invece il nostro premier pretende di giocare la partita in trasferta come ha giocato quella in patria, puntando sul supporto della grande stampa. Ma la finanza internazionale, che lo ha spinto quando si trattava di insediare un amico a Palazzo Chigi, adesso vuole risultati non si fa menare per il naso. Ecco perché la coerenza sarebbe stata più produttiva di tutto il resto. Non si può presentare la conferenza dell’Ocse annunciando che il prossimo anno sarà un anno di crescita quando appena qualche giorno addietro si è stati costretti al rivedere al ribasso le previsioni sul Pil (-2,4 nel 2012) e quando si conferma che «la nostra economia si avvierà lentamente».
Sviluppo sotto zero
Con questi numeri, parlare di taglio alle stime di crescita come hanno fatto alcuni quotidiani nazionali nel corso della passata settimana è sicuramente un eufemismo, per il semplice fatto che la crescita non esiste. Al suo posto c’è la recessione e si va rafforzando. Ciò premesso, non si capisce su che cosa Monti basi la certezza che nei prossimi dieci anni le sole misure varate dal suo governo produranno uno sviluppo di quattro punti percentuali. Per ora hanno solo accentuato le difficoltà, si vedrà se riusciremo a uscire da questa strettoia e aumentare la torta. I consumatori dicono il contrario perché, intanto, per far ripartire i consumi c’è da recuperare il potere d’acquisto perso dalle famiglie con le stangate del governo e su questo fronte il piatto piange. Non è vero, come affermato ieri da Monti, che gli italiani non sono «ostili» alle misure economiche varate dal suo esecutivo. Provi il premier a chiedere a qualcuno che cosa ne pensa dell’Imu e poi si renderà conto di quanto esasperata sia la gente che mette sempre più mano ai portafogli senza avere nessun ritorno.
Squinzi pessimista
Giorgio Squinzi, presidente della Confindustria, non ce la fa proprio ad essere ottimista. Già nelle scorse settimane Viale dell’Astronomia si è segnalata per essere stata la prima a diramare stime di crescita molto peggiori di quelle del governo e oggi il leader degli industriali conferma quella tendenza affermando di non aspettarsi «una ripartenza a brevissimo». Perché le condizioni non ci sono. Tanto che lo stesso Squinzi non esita a dirsi pronto a rinunciare «a qualsiasi incentivo per le imprese» per avere in cambio «una riduzione della pressione fiscale», che è salita a oltre il 45 per cento e che, considerando anche il sommerso, è di ben dieci punti superiore. Con una situazione di questo genere alle spalle è davvero difficile che il potere d’acquisto dei lavoratori possa aumentare se il governo non avrà il coraggio di mettere mano alla riforma fiscale. E se non ridurrà quella spesa pubblica che oggi supera il 50 per cento del Pil, vincolando a fini improduttivi risorse che in caso contrario potrebbero essere usate per fare investimenti e per sostenere il potere d’acquisto delle famiglie.
Le cifre della Cgil
Susanna Camusso parla di «quadro preoccupante», mentre l’Ires (Centro studi della Cgil) e il Cer disegnano uno scenario di ulteriore «crollo dei consumi per le famiglie operaie» e ne spiegano anche i motivi. Inflazione, disoccupazione e pressione fiscale – a loro avviso – rappresentano «un combinato disposto che determinerà un ridimensionamento degli acquisti nel triennio 2012-2014, rispetto al 2011, dell’8,4 per cento». Un dato che, considerando la situazione pregressa, è tale da costituire un vero e proprio allarme. Danilo Barbi, segretario confederale, e Fulvio Fammoni, presidente della fondazione Di Vittorio, non hanno dubbi: queste cifre bastano da sole a smentire il governo, secondo cui «le ripercussioni delle manovre sull’economia avrebbero provocato un rallentamento solo nel breve periodo». Al contrario, la ricerca mette in risalto che la flessione dei consumi interni «rimarrà almeno fino al 2014, un periodo lunghissimo per le persone», schiacciate contemporaneamente da pressione fiscale, inflazione e disoccupazione che certo non aiutano la capacità di spesa della gente. Le scelte del governo quindi non hanno effetti positivi e neppure neutrali, ma ripercussioni forti «differenziate per livelli di reddito». Più basso è il reddito, infatti, maggiore la quota che viene destinata ai consumi. Ne deriva, quindi, secondo lo studio della Cgil, che nel caso di famiglie operaie la propensione al consumo sfiora l’85 per cento del reddito, mentre per gli imprenditori si rimane al di sotto del 65. In conseguenza di ciò «nel triennio 2012/14 le famiglie dei lavoratori dipendenti subiranno un ridimensionamento dei consumi reali di 1.806 euro». In un paese manifatturiero come l’Italia, conclude la Cgil, «che produce in modo prevalente per il proprio mercato interno, ciò significa un peggioramento per le persone e un ulteriore avvitamento della crisi». Altro che la fase 2 o la luce in fondo al tunnel di cui favoleggia Monti…