Quei segreti mai svelati sul delitto Dalla Chiesa

31 Ago 2012 20:16 - di

Se, come a volte accade, la morte è lo specchio più fedele dell’esistenza e del carattere di un uomo, negli ultimi attimi di vita è racchiusa tutta la personalità di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Di quella sera del 3 settembre 1982, (esattamente trent’anni fa), in cui la mafia gli presentò il conto in via Isidoro Carini a Palermo restano, infatti, sopra ogni cosa, le immagini della A 112 bianca crivellata dai colpi dei sicari di Cosa Nostra e il corpo del Generale teso nel vano tentativo di salvare la sua amata moglie, Emanuela Setti Carraro: due testimonianze pratiche del senso assoluto del dovere e del sacrificio che contraddistinsero Dalla Chiesa anche nella sua ultima missione impossibile. Nel capoluogo siciliano era giunto a maggio in veste di prefetto senza poteri (come ebbe a dire in una celebre intervista rilasciata poco prima del suo assassinio a Giorgio Bocca), con l’obiettivo di fermare la seconda guerra di mafia e di stroncare l’ascesa sanguinosa dei Corleonesi di Totò Riina. Il 1982, del resto, fu un anno terribile per Palermo, ostaggio di un’escalation omicida senza precedenti. L’uccisione del segretario siciliano del Pci Pio La Torre, avvenuta il 30 aprile, ne accelerò la nomina, decisa, però, a inizio di quello stesso mese dal governo Spadolini.
D’altronde, quella di chiamare alle armi nella lotta contro la nuova emergenza italiana il pluridecorato carabiniere, già fiero eversore delle Brigate Rosse, sembrava una scelta indovinata. In realtà la mossa si rivelò insufficiente, non certo per colpa di Dalla Chiesa, che aveva combattuto con successo Cosa Nostra negli anni Quaranta e in seguito tra il 1966 e il 1973, ma a causa dell’indifferenza e del mancato sostegno di Roma. A pensar peggio, il Generale, proprio per la sua figura di integerrimo servitore dello Stato, rappresentò per la politica lo sponsor ideale da esibire all’opinione pubblica nell’infuocato dibattito sull’antimafia. Dietro le annunciate buone intenzioni, di fatto, ci fu veramente poco e Dalla Chiesa morì isolato dalle istituzioni.
Quei cento giorni a Palermo
Nei suoi cento giorni a Palermo, immortalati anche da un intenso film di Giuseppe Ferrara, il prefetto riuscì a coordinare delle importanti indagini che strinsero in una morsa minacciosa politica, mondo della finanza e criminalità siciliana. I risultati, però, fatalmente, non poterono essere pari a quelli ottenuti nel contrasto al terrorismo: qualche boss in carcere, un valido argine al traffico e alla raffinazione dell’eroina e la minuziosa mappatura del potere di Cosa Nostra, grazie al cosiddetto “rapporto dei 162”. Niente a che vedere, comunque, col clamore e l’essenzialità degli arresti di Renato Curcio, Alberto Franceschini e Patrizio Peci o del blitz nel covo brigatista di via Fracchia a Genova. Eppure  in quei tre mesi e mezzo, nei quali la carneficina mafiosa non cessò mai in segno di sfida, la sua influenza sulla società palermitana fu evidente più di quanto non si creda: i dibattiti, gli incontri con operai, studenti e normali cittadini restituirono alla Sicilia intera la speranza (persa, secondo un cartello affisso in via Carini il giorno dopo l’attentato, con la morte del Generale) che il cambiamento fosse possibile. 
Per il delitto Dalla Chiesa, in cui perse la vita anche l’agente Domenico Russo, che seguiva la coppia con l’auto di scorta, furono condannati all’ergastolo Totò Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Bernardo Brusca, Michele Greco e Nenè Geraci quali mandanti e Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo e Nino Madonia quali esecutori materiali. Quattordici anni di reclusione, invece, furono inflitti agli altri due killer, i collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. Al di là del primo e del secondo livello di responsabilità restano ferme le complicità delle istituzioni nei termini, asseriscono i giudici di Palermo, di una «coesistenza di specifici interessi … all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale». Una sentenza su cui, a distanza di anni, molti non sono ancora disposti a fare piena luce.

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