Vizi, vergogne e “tecnici” dell’Italia senza ipocrisie
Raccontare i vizi di un Paese è pratica necessaria e sufficiente di ogni cronista che si definisce tale. Pratica forse un po’ abusata, ma qui – al netto del voyeurismo – è il Paese legale ad avere grosse fette di responsabilità. Raccontare un Paese per vizi, declinati secondo (Sacra) Scrittura, è invece un espediente intelligente e interessante, in qualche modo anche disvelatore. Proprio questo è stato lo sforzo delle tante mani che hanno prodotto “Al mio Paese. Sette vizi. Una sola Italia” (Edimedia edizioni, pp. 138, €20). Un libro corale e accorato, curato da Melania Petriello, che ha dalla sua la forza dell’invettiva e allo stesso tempo la delicatezza dell’atto d’amore. La Petriello conduce per mano il lettore nel buio e nella speranza dell’italica passione per l’eccesso, inabissandosi nel colore della famiglia, della donna, dello stereotipo culturale nostrano, per poi riemergere come un fiume carsico nei singoli racconti dei narratori.
«Sette espedienti, radicati nell’animo, per mettere a nudo il Paese nostro», così la giornalista e curatrice del volume introduce il lavoro che ha visto la partecipazione di nove giornalisti (Giuseppe Grimaldi, Tiziana De Simone, Luciano Ghelfi, Luca Maurelli, Carlo Puca, Gianmaria Roberti, Fausta Speranza, Carlo Tarallo, Vanni Truppi, con la postfazione dello storico Fabrizio Dal Passo), impegnati a raccontare l’Italia secondo l’avarizia, l’ira, invidia, la superbia, l’accidia, la gola e, ovviamente, la lussuria. Da ciò esce, proprio come cantava Gaber («io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono»), la conferma che l’italianità passa inevitabilmente dai chiaroscuri della storia. Ed è questo il percorso del libro, dove i gironi dei “vizi” sono – come spiega nella prefazione Franco Di Mare – qualcosa di più del materiale teologico buono per il pulpito civile: «Siamo davvero certi che dietro a ogni manifestazione del benessere e della bellezza ci sia sempre e soltanto la virtù e non piuttosto le debolezze, le approssimazioni, quell’area grigia che ci rende invece fragili, inclini all’errore e al peccato, ma meravigliosamente umani?».
La strage di Capaci, il Concilio Vaticano II, il caso Pasolini, il ’68, ma anche gli interminabili ed inutili pranzi al Consiglio europeo e i muri invalicati più che invalicabili tra nord e sud. È qui, con tutta probabilità, che si innesta la peculiarità dell’opera: nell’interrogazione. Non nella tentazione moralista dunque, che tanti proseliti ha prodotto dentro e fuori le redazioni, ma il racconto problematico in sé come argine al luogocomunismo. Questo clima lo si riscontra in tutti i racconti. Se dalla lussuria passa la personalissima (o forse no?) confessione di un vecchio politico democristiano a un giornalista, che suggella l’avventura della Prima repubblica con relativa e arci-italiana riabilitazione post mortem, che cosa ne sarà dell’appena sepolta Seconda repubblica? Qui, a proposito di avarizia, ci si imbatte in un “capo di gabinetto” che si ritrova oggi a essere a capo di una toilette. Un gioco di parole, un’allegoria della stagione della politica commissariata dai tecnici. Un “luogo” dove il politico riflette su se stesso, sull’umanità che nel quadrilatero del Palazzo «si compone e si scompone con le logiche della politica, ma con le dinamiche di un parcheggio per scambisti» . Un luogo, però, dove il politico, alla fine, ritrova un sussulto di riscatto. Accade quando si accorge che i “tecnici” che – almeno ufficialmente – tanto disprezzano la politica sono gli stessi che gli si accodano alla ricerca di una stretta di mano che suggella il patto. Siamo sulla stessa barca io e te.