Quando “nostalgici” diventa una categoria politica
Basta andare su Google e digitare la frase “nostalgici del fascismo” per trovare 28.500 riferimenti. I più pittoreschi sono ovviamente i filmati di Predappio, dove si danno appuntamento, ogni giorno, centinaia di turisti in visita ai luoghi natali e alla tomba di Benito Mussolini. La cosa, beninteso, è assolutamente gradita dall’amministrazione comunale, nient’affatto nostalgica, che però vede incrementare continuamente le entrate turistiche (alberghi, ristoranti, bar, negozi di souvenir).
Ma, da qualche anno, non vi sono solo italiani in gita a Predappio. Vi affluiscono diecine di turisti, specie nella bella stagione – come l’attuale – provenienti soprattutto dalla Germania, ma anche dalla Francia e dalla Croazia-Slovenia. Tutti fascisti? Tutti nostalgici? Non è detto. Soprattutto i giovani. Sono spinti dalla curiosità, dalla voglia di sapere, di capire, di spiegarsi come poterono, i coetanei dei loro nonni e bisnonni, vestirsi in divisa, marciare inquadrati e andare a morire col braccio teso. Sì, il famoso, o famigerato, “saluto romano”. Promosso dal segretario del Partito Nazionale Fascista Achille Starace allo scopo di sostituire la stretta di mano ritenuta "borghese" e poco igienica.
Anni addietro volli constatare de visu se un fenomeno analogo era riscontrabile nella terra di Adolf Hitler. Così, mi recai prima a Berchtesgaden, in Baviera, dove sorgeva il famoso (o famigerato) «nido dell’aquila» da dove il Fuehrer dirigeva le operazioni militari (ma anche quelle criminali) del Terzo Reich. Niente. Non un segnale, non un simbolo, non una scritta. E meno che mai un negozio di souvenir. Sono passati un po’ di anni. Chissà se nel frattempo… Quella volta mi recai anche nella vicina Austria, a Braunau-am-Inn, il paese natale di Hitler. Mi rivolsi ad alcuni passanti, poi a un vigile urbano: «Wo ist das Haus des Fuehrer?», chiesi con il mio tedesco maccheronico. Mi squadrarono in malo modo. Tutti. E non per la pronuncia.
Certo, c’è tempo e modo di essere nostalgici. Mi riferisco a due significative circostanze: una nell’immediato, l’altra nel tardo dopoguerra. Primi Anni ’50, acque agitate per le sorti di Trieste e della Venezia Giulia. Avevamo già sacrificato l’Istria, Fiume, la Dalmazia. Avevamo abbandonato alla fuga e alla miseria 350 mila nostri connazionali, costretti a lasciare case, terreni, averi nelle loro terre conquistate da Tito. Poi, nel ’53, la polizia inglese, che controllava Trieste, aprì il fuoco su un corteo di studenti: sei morti, diecine di feriti. E la rivolta esplose un po’ in tutta Italia. Io stavo a Genova: seconda liceo classico, militante monarchico, assieme al mio compagno di banco Domenico Fisichella. Dunque, non certo fascisti. Ma, in quell’occasione, nella mobilitazione di ventimila studenti che scesero in piazza assaltando prima il Consolato generale inglese, poi la Federazione del Pci che aveva rifiutato di ammainare la bandiera rossa e di issare il tricolore, ci trovammo affiancati dai ragazzi del Msi. E i solerti cronisti dei giornali allineati coniarono una definizione destinata a far discutere: erano nati i «monarchico-fascisti».
Mi ricordai della ormai lontana giovinezza quando, in pieni «anni di piombo» (gli Anni ’70), il «Gruppo giornalisti democratici» (le associazioni «democratiche» dilagavano come i funghi: magistrati democratici, insegnanti democratici, medici democratici, falegnami democratici) lanciò una famosa parola d’ordine. Nessuno avrebbe potuto assumere il ruolo di direttore senza prima essersi proclamato pubblicamente «laico, democratico, antifascista». Replicai che, se l’offerta fosse stata fatta a me, mi sarei dichiarato «cattolico, democratico e afascista». Mi furono offerte molte vicedirezioni, ma nessuna direzione.
Giannini l’anti-antifascista
Ricordando queste piccole storie, mi viene alla memoria una celebre autodefinizione di Guglielmo Giannini, il grande fondatore e direttore de “L’Uomo Qualunque”: «Sono anti-antifascista», scrisse in un suo «fondo», ricordando il sangue dei vinti versato a fiumi dopo il 25 aprile ’45. Oggi i tempi sono cambiati. Si parla di movimenti nostalgici nazi-fascisti in fermento un po’ in tutta Europa. Collante comune: l’anti-islamismo. È un po’ strano pensare che si rifacciano a Hitler o a Mussolini. Del primo erano stranote le simpatie per i musulmani, peraltro ampiamente ricambiate se solo si pensa alle venti Divisioni di Waffe-SS formate da mongoli, cosacchi, uzbechi e via mussulmanando. Del secondo, basta ricordare il sogno (naufragato dopo il disastro di El Alamein) di entrare ad Alessandria d’Egitto a dorso di un cavallo brandendo la spada dell’Islam.
Quanto poi a considerare nostalgici fascisti i superstiti delle Forze Armate della Rsi che ogni anno (sempre più assottigliandosi) vanno a sentire la Messa e a ricordare i commilitoni Caduti alla Piccola Caprera di Ponti sul Mincio o al Campo della Memoria di Anzio e Nettuno, be’, è un po’ difficile considerarli membri di Casa Pound. Per quanto – a mio giudizio – è altrettanto difficile definire nostalgici gli inquilini di quella Casa.
Non va dimenticato che è tutt’ora in vigore la Legge n. 645 del 20 giugno 1952 (cosiddetta «Legge Scelba») che vieta l’apologia del fascismo sotto qualunque forma: verbale, scritta, raffigurata o gestuale. Dunque, soltanto fare un saluto romano davanti ad una immagine del Duce può significare una condanna alla reclusione da sei mesi a due anni e ad una multa da 200 a 500 euro.