L’Italia umiliata? In otto mesi siamo passati dalla teoria alla pratica

20 Lug 2012 20:40 - di

Mario Monti, con la rudezza che contraddistingue i tecnici, ci ha recentemente spiegato che nel novembre del 2011, a Cannes, l’Italia rischiò di essere «umiliata». Un termine forte per dire che, in quell’occasione, si paventò per il nostro Paese l’intervento della troika (Fmi, Bce, Commissione Ue) a sorveglianza dei conti e del prescritto piano di rientro. Allora ne uscimmo sacrificando la nostra indipendenza decisionale e cedendo al volere della Merkel e di Sarkozy di commissariare l’Italia. Con la regia del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sostituimmo Silvio Berlusconi, regolarmente eletto e mai sfiduciato in Parlamento, con il bocconiano Monti, gradito al Quirinale, alla cancelliera tedesca e alla grande finanza internazionale, ma che dagli italiani non aveva mai avuto nessuna delega. Otto mesi dopo, con la Spagna ridotta alla frutta e con alle spalle una cura da cavallo a cui ci hanno sottoposto i tecnici, siamo al punto di partenza. Una ricetta economica miope e tutta incentrata sui sacrifici e sulle tasse ha inaridito ogni possibile sviluppo, i consumi languono, il debito cresce e lo spread, comunque la pensi Monti, resta inchiodato attorno ai 500 punti base che costituiscono la soglia d’allarme. Di fronte a noi non più lo spauracchio, ma la certezza che dovremo rinunciare a una parte della nostra sovranità a beneficio della Ue. Se ne parla poco,  ma a Bruxelles è ormai in fase di avanzata messa a punto (il Parlamento europeo ha già approvato a giugno il “two-pack”) il cosiddetto “redemption fund” per coordinare le politiche economiche degli Stati. Ma non farà solo questo. La “redenzione” dovrebbe arrivare con la condivisione della parte eccedente il 60% del debito rispetto al Pil (per l’Italia, che è a quota 123, un altro 60% abbondante) che verrebbe garantito da beni pubblici di tutti gli Stati che partecipano al fondo. Il che consentirebbe di spuntare tassi d’interesse più vicini a quelli tedeschi che a quelli italiani. Al primo 60% si farebbe invece fronte ricorrendo al mercato a tassi correnti. Costi forse inferiori, ma un onere in più. Il 60 e oltre, che l’Italia conferirebbe al fondo, dovrebbe rientrare in un tempo prefissato, attraverso l’impegno a versare ogni anno una parte delle nostre tasse corrispondente a una quota di Pil ben precisa, sotto l’occhiuta sorveglianza della Ue. La sovranità nazionale andrebbe così a farsi benedire, essendo la nostra politica economica decisa all’estero più che a Roma. Un problema teorico? Tutt’altro. Il Fmi ha messo nero su bianco che Spagna e Italia potrebbero presto perdere l’accesso al mercato. Potrebbero essere cioè (Madrid praticamente lo è già) nelle condizioni di non potersi finanziare autonomamente. Insomma, potremmo essere alla vigilia del grande salto. E allora se ci troveremo, come ci siamo già trovati nei giorni scorsi, nella necessità di finanziare la Sicilia non potremo farlo senza l’ok della Merkel. Valeva la pena di buttare giù un governo regolarmente eletto per ottenere questo risultato?

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