Diamo più spessore al partito e recuperiamo il senso della sfida
Marcello Veneziani, con ineccepibili argomentazioni, Marcello De Angelis, cogliendo al volo l’occasione per aprire su queste colonne un dibattito non al cloroformio, ci hanno riportato a confrontarci sul futuro della destra italiana. Può sembrare banale, ma giova ribadirlo, che in politica vi sono fasi in cui idee, movimenti e partiti hanno il vento in poppa e altre in cui tutto sembra perduto: vivere le une e le altre con lucidità significa non farsi prendere ora da eccessivi entusiasmi, ora da forme depressive. Il Popolo della libertà vive oggi una stagione difficile per varie ragioni dalle quali molto spesso si cerca di prescindere, quasi che le facili scorciatoie non conducano spesso in vicoli ciechi. È inutile negare che – nato prima ancora come cartello elettorale che come soggetto politico vero e proprio – il Popolo della libertà solo dopo il suo primo congresso nazionale aveva iniziato un lento ma inesorabile percorso che lo avrebbe portato nel tempo a strutturarsi come partito, pure con tutti i distinguo del caso. A metà di quel percorso, la rupture con l’ex leader di An ha fatalmente posto fine non solo a quella leadership duale (Berlusconi-Fini) che doveva costituire l’asse portante del Pdl, ma anche alla speranza – da molti di noi coltivata – che dopo Berlusconi, sarebbe stato il turno di Fini. La nascita di Fli come gruppo parlamentare autonomo, la decisione dei suoi componenti di tenersi le mani libere su ogni provvedimento legislativo, i numeri sempre più risicati su cui la maggioranza di centrodestra poteva contare nelle aule parlamentari, dovevano necessariamente suggerirci di chiedere ed andare ad elezioni anticipate, anziché illuderci di riuscire a fare fronte alla più importante crisi finanziaria mondiale degli ultimi cent’anni con il sostegno da transfughi di varia origine e varia umanità. Era quello il momento giusto non solo per ridare il voto agli italiani, che ci avrebbero ancora massicciamente accordato la loro fiducia, ma anche per presentarci al corpo elettorale con un programma decisamente più essenziale, più rigoroso, se vogliamo anche più sparagnino, di quello precedente. Un errore formidabile dunque, quello del tirare a campare, che rischia oggi di farci tirare le cuoia. Ma proprio perché molti di noi, considerati vecchi solo perché in politica da quando avevano i calzoni corti, hanno ancora il gusto della sfida, della lotta, della battaglia, soprattutto quanto questa appare impari, eccoci qui a ragionare sul come fare uscire la nave dalla bottiglia. Un’impresa non facile, ma che – proprio per questo – ci affascina. Mettendo però subito in chiaro che se il Pdl vuole riservarsi un ruolo da protagonista nella vita politica italiana deve innanzitutto scrollarsi di dosso la forma, l’immagine di partito carismatico. Con Berlusconi protagonista, infatti, il partito carismatico aveva un senso, nel momento in cui il Cavaliere decide di “fare l’allenatore”, va allora esaltato il ruolo, non solo di rappresentanza ma decisionale, della classe dirigente. E anche qui il nuovismo a tutti i costi rischia di costarci caro: un dirigente di partito è bravo non in relazione alla sua carta d’identità ma alla capacità che dimostra. Può anche essere che vi sia una sovraesposizione delle solite facce nei talk show televisivi, ma allora si tratta di dosare meglio quelle presenze, non di cancellarle, anche perché non è che i cosiddetti astri nascenti buchino poi il video in modo così convincente o le tesi li esposte siano acclamate a furore di popolo. Inoltre, occorre dare uno “spessore” alla politica del partito. Le analisi da bar servono poco e ancora meno serve inseguire chi sulla protesta crede di potere costruire le proprie fortune elettorali. Le ansie degli italiani ed una società inquieta e incazzata, nella quale i pericolosi germi dell’invidia sociale si radicano sempre più anche grazie a una “rete” del tutto fuori controllo, sono la conseguenza prevedibile di un processo di globalizzazione non adeguatamente governato. E ciò non solo in Italia, ma quantomeno anche in Europa. Come prescindere, in quest’analisi, dall’irrompere sulla scena politica europea di ben 18 partiti populisti, tanto più elettoralmente forti dove si sta meglio (Olanda) rispetto a dove si sta peggio (Grecia)? Un partito che vuole fornire una risposta “popolare” ma non “populista” alle pulsioni sociali in atto, non può che dare vita a un “manifesto per l’Italia”, un’occasione irripetibile per ricucire il legame con quel blocco sociale allo stesso affine che la politica del governo Monti ha reso diffidente quando non manifestamente ostile. Un “manifesto” in cui si rivendichi il primato della politica sull’economia, in cui si ponga al centro della società la persona e non la finanza, in cui è attraverso la partecipazione del dipendente agli utili dell’impresa che si supera il conflitto capitale-lavoro. Un “manifesto” per ribadire che lo Stato non è il participio passato del verbo essere; in cui legge ed ordine sono i cardini sui quali si sviluppa la società; in cui la riforma costituzionale non può che trovare nel presidenzialismo la sua ragione d’essere. Insomma un messaggio alto e forte per dire anche, a chiare lettere, che per noi la proprietà privata non è un furto, che il popolo delle partite Iva è una risorsa e non un coacervo di evasori, che vogliamo uno Stato leggero perché vogliamo che protagonista sia la Big society (giusto l’esempio inglese di Cameron). Si converrà che ci sono ancora tante belle e significative esperienze che possiamo avere l’orgoglio di realizzare solo che si esca da quel cupio dissolvi che sentiamo intorno a noi. Ma per fare questo delle due, l’una: o il Pdl dà un colpo di reni, o chi ha creduto nella realizzazione di questo partito e per lo stesso si è battuto, anche rompendo antiche amicizie pur di non venire meno alla parola, ha il dovere di agire perché le mode sono di passaggio, la destra no perché si nutre di valori eterni.