Per l’accusa i marò sono «mercenari»

20 Mar 2012 20:49 - di

L’avvocato dell’accusa rappresenta le famiglie dei pescatori uccisi, ma anche il governo del Kerala. L’avvocato dell’accusa, ieri, nel corso dell’ultima udienza sulla giurisdizione, ha detto che Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono dei «mercenari». Mercenari perché ingaggiati nell’ambito di una «trattativa privata» tra lo Stato italiano e i mercantili nazionali. «Nell’accordo c’è scritto chiaramente che quando sono in servizio hanno funzioni di agenti di polizia», ha ribattuto l’avvocato della difesa, Suhail Dutt, ricordando che l’incidente non è avvenuto in acque territoriali e per il diritto internazionale sulla giurisdizione vale «il principio della bandiera italiana».

Ancora attesa sulla giurisdizione
Il giudice dell’Alta Corte del Kerala A.K. Gopinathan è apparso attento e puntiglioso mentre i due avvocati si davano battaglia. Tra una settimana dirà se i due marò devono essere giudicati da un tribunale locale, come chiede il governo del Kerala, o da un tribunale italiano, come dicono le leggi internazionali. Gli osservatori dicono che l’India è una grande democrazia, con un solido stato di diritto. Che lì il principio della separazione tra politica e magistratura è solido. Ieri però l’avvocato del governo ha dimostrato di disconoscere un’altra caratteristica delle grandi democrazie: il senso delle istituzioni.

«Una lettura capziosa»
«È una forzatura, una lettura capziosa», spiega Giuseppe Cossiga, che ha seguito fin dall’inizio l’iter della legge che consente la presenza di militari in servizio sulle navi private. La questione «è molto semplice», aggiunge il deputato del Pdl, chiarendo che «il ruolo istituzionale delle forze armate è la tutela delle persone e, in questo caso, del diritto di navigazione dei mezzi italiani in acque internazionali». È dunque per rispondere al loro mandato che i militari italiani sono imbarcati sui mercantili. «Le navi italiane, del resto, sono territorio italiano galleggiante. I militari – ribadisce Cossiga – sono lì per difendere le persone e il territorio italiano dagli attacchi dei pirati». Dunque, niente a che vedere con i mercenari, che difendono gli interessi di chi li paga. Qui i militari sono pagati dallo Stato e l’armatore provvede solo alle spese vive, e questo «è l’unico accordo di natura privata che esiste fra lo Stato e l’armatore». Ma si tratta di un accordo che esiste anche tra istituzione e istituzione. È stato applicato, per esempio, durante l’emergenza neve: gli enti locali hanno pagato in proprio le spese sostenute dai militari che prestavano soccorso.

L’equivoco tra contractors e militari

Eppure anche l’Alto rappresentante per la politica estera europea, Catherine Ashton, di recente, è incorsa nell’equivoco tra “guardie private” e militari in servizio. È stata una gaffe clamorosa, commessa al termine del colloquio della settimana scorsa con Mario Monti. Ha costretto la baronessa a una precipitosa rettifica. Com’è possibile? «In altri Paesi – chiarisce ancora Cossiga – vengono imbarcate guardie private. Anche da noi la legge prevede questa possibilità, per altro con un meccanismo soggetto a una reclutazione specifica gestita dal ministero dell’Interno, ma gli armatori non possono avvalersene, perché il regolamento non è stato ancora definito». Le guardie private, spiega Cossiga, sono come le guardie giurate: possono prevenire un crimine, ma non hanno vere funzioni di polizia. In alcuni Paesi, come la Spagna, possono svolgere anche attività ausiliaria di polizia, ma il sistema è diverso dal nostro.

Di risoluzioni Onu non ce n’è bisogno

Oltre all’Italia anche Paesi come la Francia o il Belgio imbarcano miliari. A regolare il loro servizio sono le leggi nazionali, che però si inquadrano nella cornice del diritto internazionale e delle missioni antipirateria Ue e Nato. «L’Ue e la Nato – prosegue Cossiga – hanno le loro navi nell’Oceano Indiano, sono una quindicina. Poi ci sono delle risoluzioni specifiche dell’Onu per le navi che portano il cibo in Somalia». Tutto quello che c’è al di fuori di queste zone protette è rimandato alle missioni nazionali. Per queste non esistono risoluzioni specifiche dell’Onu, «tuttavia la difesa dalla pirateria è un diritto di tutti i Paesi, ricade in un diritto storico da cui poi è nato il diritto internazionale». Non ci sono risoluzioni, dunque, «perché non ce n’è bisogno».

Il problema non è la legge

In queste settimane si è discusso molto dell’adeguatezza della legge che consente l’impiego di militari sulle navi mercantili. Il “sequestro” dei marò, fatti scendere a terra con l’inganno dalle autorità indiane, ha portato molti a chiedere che i militari siano sostituiti con le guardie private. Ma Cossiga difende la legge. «Noi abbiamo costituito un provvedimento equilibrato e che si poneva il problema di cosa succede in situazioni di sovrapposizione del comando: quando la nave è sotto attacco è militare; per tutte le altre operazioni prevale il comandante della nave». Il problema è un altro: «Quello che rimane curioso è che, per un episodio avvenuto in acque internazionali, si siano fatti sbarcare i militari, ovvero li sia fatti uscire dal territorio italiano, quale la nave è, per farli entrare in territorio indiano. Questo è incomprensibile». «Non so quali siano state le valutazioni, se si debbano far discendere dalla Farnesina o dall’armatore, diciamo – afferma il deputato del Pdl – che non credo che sia stato il comandante a dare l’ordine e certo non è stata la Marina».

Diplomazia non è politica estera
Ma ora che il pasticcio è fatto come se ne esce? «Io penso che chiuse le elezioni, dal governo del Kerala ci sarà un qualche “gesto di clemenza” da potersi rivendere come un grande successo», dice Cossiga, aggiungendo che «è chiaro che una grossa parte di questa vicenda è legata agli interessi immediati delle elezioni, ma a voler pensar male non possiamo escludere anche altri tipi di interesse. Ben più loschi affari tra pirati, pescatori e forse anche elementi delle autorità locali, perché se questi possono agire così indisturbati delle basi a terra devono pur averle». «Il problema vero però – conclude – è che noi ne usciamo malissimo, perché una cosa è la politica estera altra cosa è la diplomazia. La diplomazia funziona bene quando a guidarla è la politica estera, altrimenti manca qualcosa. E quando il ministro degli Esteri è un ambasciatore, che pensa che la politica estera sia la diplomazia, quel qualcosa evidentemente manca».

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