L’unanimismo montista cede sul lavoro
Il “montismo” è nato prima nei “palazzi” giornalistici che in sede propriamente politica. Non aveva bisogno del consenso popolare perché aveva già quello dei media. Consenso che a volte ha rasentato punte di grottesco lecchinaggio, pur su testate altresì prestigiose. Nelle prime settimane di governo coniammo la testata “siamese” Repubblichiere della Sera, per identificare questa persistente voce unica che parlava al popolo italiano dell’avvento del Salvatore della Patria. Tutto andava bene fino a un mese fa, quando è stato possibile notare una progressiva divergenza nei commenti su quelle testate che rappresentano chi la Fiat, chi Confindustria, chi De Benedetti, chi tutto il resto. Ieri, sulla Stampa, un editoriale di Gian Enrico Rusconi – non un cronista qualunque – gettava sul tavolo tecnico il concetto molto politico di “consenso”. Dopo aver ricordato come “colpo di mano giocato sul panico spread” la riforma delle pensioni e come “debole e deludente” l’azione sulle liberalizzazioni, Rusconi si chiede se Monti, sul lavoro, non stia per commettere il suo “primo serio errore”. E sarebbe un errore, prosegue, tirare in ballo l’Europa per far ingoiare la “liberalizzazione del lavoro”. A quale Europa si riferisce Monti? Non basta – scrive lo storico – “riferirsi esclusivamente agli indicatori di mercato”. Quindi? Quindi anche i politici devono capire – dice Rusconi – che senza consenso le riforme non funzionano. E il consenso va e viene. In un baleno.