La Ciociara, il film che raccontò la guerra vista dalle donne

23 Mar 2012 17:32 - di

Cinquant’anni e non sentirli affatto: giusto mezzo secolo fa, il 10 aprile del 1962, il film La Ciociara, con la statuetta di miglior attrice consegnata a Sophia Loren, entrava nella storia mondiale del cinema. E da allora non ne è più uscito, anzi… Secondo le classifiche che periodicamente stilano proprio gli americani, il film diretto da Vittorio De Sica è sempre tra i più visti, anno dopo anno, in tutto il mondo. E proprio in questi giorni la pellicola restaurata è uscita in dvd e nelle edicole, veicolata dal Corriere, ed è andata letteralmente a ruba. Un fascino senza tempo, come quello della sua straordinaria interprete che ancora oggi confessa di ricordare minuto per minuto le fasi dell’annuncio dell’Oscar (erano altri tempi e la notizia le arrivò mentre era in albergo, con una telefonata del mitico Cary Grant) e le emozioni provate, assieme a Carlo Ponti e alla mamma Romilda.
E quindi il nastro lo riavvolgiamo proprio da quel momento, anche se il film era stato girato due anni prima e nel frattempo aveva vinto già una dozzina di altri premi, compreso quello della Palma di miglior attrice (ovviamente sempre alla Loren) al Festival di Cannes.
Tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, oramai anche i bambini sanno che la storia è quella di Cesira, una giovane vedova che si carica sulle spalle la miseria di quei tempi e la figlia tredicenne Rosetta. Sono i tempi terribili della guerra e anche le due donne, che vivevano a Roma, finiscono sfollate, sulle montagne della Ciociaria, nel borgo (finzione letteraria, perché nella realtà non esiste, anche se in molti lo hanno identificato con Vallecorsa) di Sant’Eufemia, peraltro proprio il paese natale della famiglia di Cesira, una ciociara anche lei per l’appunto.
Qui nasce l’amore tra la vedova e Michele, un giovane intellettuale interpretato da Jean Paul Belmondo, che poi però viene catturato dai nazisti. Davanti all’impossibilità di ricostituire una famiglia (anche Rosetta intanto si era molto affezionata a Michele) e visto che le vicende belliche sembravano più tranquille, Cesira decide di far ritorno a Roma, a piedi. Ma non fa i conti con le truppe marocchine del famigerato generale Juin; e così, mentre le due donne riposano in una chiesa diroccata, vengono sorprese da un gruppo di soldati che a ripetizione violentano la ragazzina e la madre. La scena dello stupro e della successiva disperazione, con Cesira che vanamente lancia pietre contro i soldati, sono tra quelle immortali nella storia del cinema. Una scena che De Sica girò poche volte, prima di quella definitiva, tale e tanta fu la bravura delle due attrici, compresa l’allora giovanissima Eleonora Brown, oggi una gran bella donna che di tanto in tanto ancora capita di vedere in qualche trasmissione televisiva: il regista le spiegò – Eleonora allora aveva effettivamente 13 anni, come la protagonista del romanzo – che quei soldati l’avrebbero solo picchiata, senza entrare nei dettagli. E in molti tra i più anziani, nei borghi della Ciociaria, ancora oggi ricordano le riprese del film e il particolare, assai singolare, della ricerca della chiesa per girare la scena dello stupro, un luogo sconsacrato che venne individuato proprio dalle parti di Vallecorsa, ma che un monsignore del posto non volle concedere (proprio per la valenza della scena o perché la Loren a quei tempi veniva additata perché convivente ma non sposata con il produttore Carlo Ponti?). E così si ripiegò su una chiesetta abbandonata dalle parti di Fondi, nel lembo della Ciociaria che si spinge verso il mare. Eppure a quella chiesa di Vallecorsa, la piccola Santa Maria delle Grazie, De Sica tornò comunque per girare la scena degli esterni, con la strada brecciata lungo la quale si incamminano una Cesira in lacrime e una Rosetta già chiusa nel suo mutismo di ragazzina violata.
Ma su quelle zone della Ciociaria, in effetti, la vicenda dello stupro, così centrale nel film, ha sempre aleggiato: le ‘marocchinate’, ovvero le donne vittime della furia bestiale dei soldati del generale Juin (ai quali erano state promesse ‘in premio’), ancora oggi si contano a decine tra le donne più anziane in certi paesi sui monti Aurunci ed Ausoni, da Esperia alla Valle dei Santi, teatro delle scorribande delle truppe alleate attorno al nodo strategico dell’Abbazia di Monte Cassino. Una lunga battaglia legale per decenni ha interessato numerose famiglie per il riconoscimento dei danni subiti, anche morali. E una vasta bibliografia non ha mai smesso di interessarsi della problematica, con punte di ricostruzione – tra la saggistica e la narrativa – veramente degne di nota, da La gioia violata di Federica Saini Fasanotti a Il corpo di spedizione francese in Italia di Fabrizio Carloni, pubblicati rispettivamente dalla Ares e da Mursia.
Ma, per tornare al film, va ricordato che non è mai stato messo abbastanza in rilievo il ruolo di Cesare Zavattini, che ne curò la sceneggiatura: Zavattini amava quelle terre (da ragazzo studiò in un collegio nella vicina Alatri) e riuscì a ‘pennellare’ con efficacia proprio la cornice ciociara della pellicola. E in molti ritengono – e noi con loro – che una discreta influenza sul neorealismo de La Ciociara arrivò anche da un film precedente di qualche anno, Non c’è pace tra gli ulivi, girato da Giuseppe De Santis in quegli stessi luoghi. Peraltro, anche in quella pellicola si parlava di soprusi sulla povera gente, con lo sfruttamento dei contadini.
Un filone, questo del neorealismo ciociaro, che ha poi trovato il culmine nel completamento di questo neanche tanto immaginario trittico, qualche anno dopo con Per grazia ricevuta di Nino Manfredi. Il regista e attore di Castro dei Volsci volle girarlo proprio nella sua Ciociaria, dando al film una forte identità territoriale anche nei paesaggi, oltre che nella narrativa (una religiosità tradizionale ma al contempo non disposta a restare ancorata a certi riti). Un atto di amore di Manfredi nei confronti della sua terra così totale che in molti, dalle sue stesse parti, gli hanno poi perdonato le successive ‘macchiette’ televisive del barista di Ceccano che invece non poco hanno contribuito a creare l’immagine, assolutamente distorta, del ciociaro “burino” e ignorante.

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