Il best seller piace perché non è un capolavoro
Sul più importante quotidiano nazionale, una polemica così non te l’aspetti. Una disputa vecchio stile, di quelle che solitamente animano le riviste letterarie o i piccoli e grandi riti del panorama editoriale, ma che stavolta è finita col coinvolgere addirittura l’opinione pubblica. O almeno, quella porzione che una volta tanto, con varia regolarità, si reca in libreria. Il sasso, oltre una settimana fa, lo ha lanciato un critico solitamente “prudente” come Pietro Citati, non uno qualsiasi. Citati è uno degli intellettuali più influenti degli ultimi decenni. Da una vita si occupa di letteratura e lo fa egregiamente, dall’alto dei suoi ottanta e più anni. Con un’autorevolezza che gli viene da una grande carriera, da una lunga serie di saggi “illuminanti” e da quel po’ di reverenza che solitamente circonda i venerati maestri.
Nel consueto spazio che occupa sul Corriere, il critico è tornato a esprimersi sul valore della “vera” letteratura, utilizzando come metro di paragone l’inutilità della lettura di un best seller. Citati li ha definiti «una specie di orgia, dove ciò che conta è la volgarità dell’immaginazione, la banalità della trama e la mediocrità della stile». E ha steso una personalissima short list degli scrittori da evitare, nominando tre campioni della classifiche di vendita, come Dan Brown, Giorgio Faletti e Paulo Coelho. Sui quali, ha espresso un giudizio molto negativo, praticamente opposto rispetto all’ammirazione (sbandierata) per la generazione letteraria precedente: «La generazione letteraria del 1910-1924 – scrive Citati nell’articolo – che pubblicava i propri libri attorno al 1960-1970, è stata la più ricca e feconda apparsa da secoli nella letteratura italiana. I lettori ereditavano le qualità degli scrittori. Erano lettori avventurosi e impavidi, che non temevano difficoltà di contenuto e di stile, fantasie, enigmi, allusioni, culture complicate e remote».
La replica, come ovvio, è arrivata quasi subito. Prima per bocca di Faletti, che nel patinatissimo salotto televisivo di Daria Bignardi si è definito “un perseguitato”, citando gli abbagli della critica da Dickens a Mark Twain. Poi da una schiera di direttori editoriali e personaggi del mondo librario, insorti in difesa del ruolo insostituibile del best seller, che hanno (bonariamente) lanciato strali contro il “grande vecchio”, reo di difendere un’idea troppo antica della letteratura.
La riflessione di Citati, però, poggia su una considerazione indiscutibile: un abisso qualitativo separa i bestseller odierni, dai grandi libri di ieri. Superiori per forma e contenuti, grazie a una generazione di intellettuali che ha regalato alla narrativa capolavori incredibili. La generazione dei Pavese, Calvino, Moravia, Pasolini e Flaiano, solo per citarne alcuni. Ma anche quella che dal ’60 in avanti partorì una delle intuizioni più indovinate del nostro panorama editoriale: il best seller all’italiana, che unisce trame semplici e storie di grande respiro, miscelando accuratamente intrattenimento ed intelletto. Ecco qualche titolo: La ragazza di Bube di Cassola (’60), Centomila gavette di Ghiaccio di Bedeschi (‘63) ma soprattutto Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani (‘62), uno dei romanzi più importanti del nostro Novecento.
Proprio Il giardino, cuore di un ciclo di opere dedicate alla città estense e universalmente noto come “Il romanzo di Ferrara”, può essere considerato l’ideale capofila del best seller all’italiana. Il più significativo, in una lista di titoli che partendo da Bassani, prosegue imperterrita per un trentennio fino a Umberto Eco e Susanna Tamaro. Mostrando peculiarità particolari e una spiccata originalità, rispetto alla letteratura commerciale classica.
D’altronde, sul piano semantico, il termine best seller ha un significato molto ampio, che racchiude un mondo di possibilità e situazioni. Esattamente, la definizione non indica i libri più venduti, ma quelli che si vendono più rapidamente. E differentemente dai long seller, come ad esempio i grandi classici, che hanno un tempo di vendita diluito in decenni e generazioni, i best seller riscuotono un successo immediato, che riflette una particolare combinazione di fattori. Infatti, dal ’70 in avanti, un best seller è soprattutto un grande progetto editoriale. Qualcosa di molto diverso dalla visione romantica dell’opera d’arte, che nasce per rimanere eterna. Ma infinitamente più vicino a un programma a breve termine. Un libro studiato per un periodo ben determinato e per un successo momentaneo, che coglie la sua massima espressione al momento dell’uscita. In sostanza, un autentico prodotto di massa, figlio non dell’ispirazione ma della pianificazione, portato avanti da un equipe che include editor ed eventuali ghost writer, ma anche psicologi ed esperti di mercato, nel tentativo di creare intrattenimento usando la letteratura come supporto.
Uno scrittore argentino, César Aira, qualche anno fa, sul supplemento domenicale de El Paìs, diede una bella definizione del best seller, partendo proprio dall’analisi di uno dei romanzi italiani più venduti di sempre, Il nome della rosa di Eco: «Questo romanzo è un autentico best seller dall’inizio alla fine – precisa Aira – però mette anche in risalto due precise contraddizioni tra best seller e letteratura, la prima delle quali è l’intenzione. La letteratura è sempre un’intenzione deviata; il best seller un’intenzione realizzata. Lo stesso Eco l’ha dichiarato: si era proposto di realizzare “un romanzo poliziesco che si sviluppasse in un monastero del XII secolo”. E lo ha fatto, è indubbio. La vera letteratura, e questo si fa più evidente quanto più è grande, risulta in confronto un labirinto di propositi falliti e risultati insperati. Cosa si proponeva Cervantes nello scrivere il Don Chisciotte, Byron il Don Juan, Kafka La metamorfosi? Di certo le loro intenzioni, anche se avessero potuto esprimerle in modo chiaro (ammesso che esistessero!), non avrebbero trovato posto in una limpida frase soddisfatta come quella di Eco. Il best seller è “un sogno realizzato”, mentre la letteratura è un sogno in divenire».
Riassunta in poche righe, in questo intervento c’è tutta la differenza tra un grande libro ed un libro venduto. Tra qualcosa che è arte allo stato puro e prevede, per realizzarsi completamente, una buona dose di fortuna e quindi d’imprevedibilità. E qualcosa che invece è retto, lineare, semplice e raggiunge il successo proprio per il suo essere prevedibile. Tanto prevedibile, da ripetersi periodicamente e con pochissime novità, fino a scadere nell’abitudine. L’esatto contrario di quanto accade nella piccola e media editoria, dove un libro è tenuto in catalogo per anni e finisce con l’imporsi all’attenzione del pubblico anche solo grazie al passaparola. Riuscendo a sopravvivere, e questo è il vero miracolo, alle mode, alle critiche e persino alle polemiche. Che in materia di libri non sono mai poche.