Si parla di riforme e cambia tutto: il Cav è il santo, Bersani il diavolo

23 Feb 2012 20:17 - di

Alla fine il diavolo diventa santo e il santo diventa diavolo. Il diavolo prima era Berlusconi, l’uomo che divideva, l’intralcio a qualsiasi svolta, il padre-padrone che impediva il dialogo democratico. Il santo era Bersani, uno dei protagonisti dell’avvento del governo tecnico, sponsor (pro domo sua) di Monti, grande tessitore della sacra alleanza che portò alla caduta del Cavaliere. Ora la situazione si è ribaltata. Berlusconi ha tranquillamente incontrato il premier e ha approfondito i contenuti, parlato di riforme, senza né trappole né giochi da illusionista. Bersani è stato costretto a chiedere un faccia a faccia con Monti, incontrarlo e spiegargli che le cose nel Pd non andavano affatto bene, che c’era malumore, che non poteva rompere i rapporti con la Cgil e che gli occorreva una scusa qualsiasi, magari una piccola correzione alla riforma del lavoro, da presentare alla base e al sindacato come vittoria del partito. In poche parole, una pezza di appoggio per dire: «Ho portato un contributo al dibattito migliorando i provvedimenti». Il tutto mentre, paradossalmente, il governo faceva sapere che la “rivoluzione” nel mercato del lavoro sarebbe andata in porto, a prescindere dall’appoggio o meno del Partito democratico.

Le mosse strategiche di Elsa

La premiata ditta “Fornero & Co” sta producendo materiale su cui il contenzioso è forte e coinvolge, quasi in toto, gli schieramenti. A tutti piace dire che non sono all’ordine del giorno ultimatum di sorta. Ma che cos’altro è, se non un ultimatum, il diktat della Fornero e di Monti che zittiscono Cgil e Pd affermando che «la riforma si farà comunque», entro il 31 marzo, con o senza l’intesa con la parte più massimalista del sindacato? Monti vuole lo scalpo dell’articolo 18, da portare in dono all’Europa, ai mercati e alle agenzie di rating, e lo avrà comunque. Anche perché, almeno su questo versante, le sue convenienze incrociano la politica portata avanti in questi anni dal governo Berlusconi e dal Pdl. Per volere dell’ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, il governo di centrodestra aveva inserito nella manovra estiva, all’articolo 8, un meccanismo in grado di sterilizzare molte delle ricadute dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Quell’esperimento, però, non potè avere seguito perché boicottato da imprenditori e sindacati che il 28 giugno raggiunsero un’intesa in grado di ingessare la normativa. Oggi, quindi, quando Berlusconi e Alfano spingono Monti ad andare avanti e gli promettono un sostegno leale non fanno che fare il proprio mestiere. Non si capisce, infatti, perché dovrebbero abiurare alle loro idee e comportarsi diversamente rispetto a qualche mese fa. Diverso è il discorso per il Pd e per la sua classe dirigente, che hanno remato contro il ridimensionamento dell’articolo 8 l’estate scorsa e oggi trovano difficile dire di sì a norme che la Cgil, loro sindacato di riferimento, vede come il fumo negli occhi. Ieri Pier Luigi Bersani ha visto Monti ma il suo potere contrattuale, al punto in cui siamo, era praticamente ridotto a zero, dopo il via libera di Berlusconi e l’esternazione del premier e del ministro del Welfare. Per questo non ha potuto fare altro che garantire lealtà fino al 2013. Il Pd sarà con lui – ha detto correggendo il tiro rispetto a due giorni fa – anche se non c’è accordo.

Lo stato dell’arte
Fatto l’accordo sulla flessibilità in entrata (i contratti di apprendistato sono stati i soli su cui tutti hanno concordato), a partire da ieri si è entrati nel merito della spinosa questione della flessibilità in Uscita. Non ci si confronta più su quello che c’è o non c’è  sul tavolo ma si va alla sostanza delle cose: l’articolo 18 rappresenta il vero e proprio convitato di pietra e nessuno lo nega. Monti, appena poche ore prima di incontrare Bersani, ha preso spunto dalla conferenza stampa con il premier spagnolo Mariano Rajoy per affermare che «sulle riforme deve prevalere l’interesse generale», per liberare risorse e aumentare la competitività. «È doveroso – ha detto il presidente del Consiglio  – che il governo tenga aperto il dialogo con il Parlamento a cui alla fine spetta l’ultima parola», ma tutti debbono avere ben chiaro che «le riforme sono alte» ed il governo è «pronto a impiegare tutto il credito di cui può disporre per il risultato». Anche per questo, secondo il premier, non si può dire di sì a tutto. Sulle liberalizzazioni, ad esempio, qualche suggerimento verrà accettato, ma altri no. Se fatta bene questa riforma può liberare molte potenzialità e far crescere il Pil.

L’Ue abbassa le previsioni
Il problema è sempre quello della crescita. La Commisione europea ieri ha rivisto al ribasso le stime relative all’Italia e prevede che il Pil nel corso del 2012 calerà dell’1,3 per cento, Una vera e propria inversione di tendenza, visto che ancora nell’autunno dello scorso anno, Bruxelles pensava che era possibile uno sviluppo dello 0,1 per cento. Anche i dati del 2011 hanno registrato un peggioramento. Sei mesi fa si pensava che era possibile una crescita dello 0,5 per cento: oggi, a conti fatti, ci si ferma allo 0,2. Per la nostra economia è confermata la fase di recessione per il primo semestre  dell’anno, mentre una qualche ripresa potrebbe arrivare da luglio in poi a condizione che lo spread tra Btp e Bund tedeschi resti intorno ai 370 punti base. Monti, comunque, invita a non fasciarsi la testa più del necessario. Chi pensa che, in queste condizioni, per centrare l’obiettivo del pareggio di bilancio a fine 2013 sia necessaria un’altra manovra correttiva, secondo il premier, resterà deluso. «Le stime della Ue – afferma –  non sono una sorpresa», perché nel pacchetto adottato a dicembre e noto come decreto Salva-Italia «è stato tenuto conto  di una previsione molto prudenziale per l’andamento del Pil».

Lavoro e giovani
Il sindacato continua a negare che sia necessario riformare l’articolo 18 per poter creare occupazione. Gli imprenditori, invece, sostengono che il diritto di reintegro sul posto di lavoro da parte del giudice, esistente per tutte le imprese con più di 15 dipendenti, scoraggia la crescita dimensionale delle aziende e quindi le assunzioni. Per Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil, «bisogna essere chiari sul fatto che riformare il mercato del lavoro è necessario per ridurre la precarietà ed estendere le tutele a tutto il mondo dell’impresa ma, di per sé, non genera alcun posto di lavoro. Il tema dell’occupazione e del lavoro va affrontato decidendo un piano di investimenti, decidendo di investire sull’occupazione in particolare di giovani e donne. Di tutto questo al momento non c’è traccia ed è sbagliato illudere il Paese che di per sé la riforma invece sia la risposta all’occupazione». Ancora più pessimista Raffaele Bonanni, leader della Cisl. «Un governo che io stimo, come questo, ha il dovere  – sostiene con riferimento all’articolo 18 – di comportarsi secondo i criteri per i quali è stato nominato in un momento di difficoltà. La coesione sociale è un fatto importante. Non si può istigare la gente alla ribellione, mi pare che stanno facendo questo». Hanno scelto, ha aggiunto, «di dare man forte» a una posizione che «conviene alla Marcegaglia».

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