Quella faccia un po’ così del Pd a Genova

13 Feb 2012 20:16 - di

Pierluigi Bersani ci ha pure provato a buttarla sul fair play e a far passare l’idea che, in fondo, non era successo niente. Ma è stato un tentativo vano, perché la sconfitta di Marta Vincenzi alle primarie del centrosinistra a Genova ha provocato un putiferio, con tanto di dimissioni dei segretari cittadino e regionale del partito. E la prima a fare «cose da i-pazia», come ha scritto Debora Serracchiani sul suo profilo twitter, è stata proprio il sindaco uscente: tanto ha “cinguettato” la sua rabbia, tra attacchi al Pd e paragoni con Ipazia appunto, da far venire ad Andrea Sarubbi il sospetto che «o qualcuno si è impossessato dell’account di Marta Vincenzi, o qualcuno si è impossessato di lei». «Spero la prima», ha chiosato il deputato del Pd, anche lui su twitter.

Bersani minimizza
La Vincenzi ha perso contro Marco Doria, il candidato vicino a Sel. Lei ha preso il 27,5%, lui il 46%. Anche l’altra “notabile” del Pd, la senatrice Roberta Pinotti, s’è fermata alla metà dei consensi dell’outsider: ha preso il 23,6%. La somma matematica dice che, con un solo candidato, il Pd avrebbe vinto. Ma in politica le somme matematiche bastano? Secondo Bersani, sì. «Le primarie – ha detto – hanno una loro logica. Quando si accetta che alla gara partecipino più candidati del Pd, poi se ne devono accettare gli esiti. Ora si lavora con entusiasmo e passione per vincere alle amministrative con il candidato del centrosinistra. Ora si vince con Doria». Dunque, dal leader del Pd ieri è arrivata una doppia rassicurazione. La prima: la vicenda di Genova riguarda lo specifico di Genova, dove la presenza di due candidati ha fatto il patatrac. La seconda: la Vincenzi o Doria poco importa, il progetto non cambia. Ma, come l’aritmetica, anche certi automatismi in politica non funzionano. Perché in politica il contesto, i precedenti, le variabili contano più di qualche formula rassicurante. Qui contesto, precedenti e variabili raccontano di un Pd in piena crisi, che perde ogni qualvolta vada allo scontro con un candidato di Sel e dintorni (Milano, Napoli, Cagliari, la Puglia fanno ormai ampia casistica nazionale), che fra le variabili – quelle per le alleanze prossime venture – deve considerare il fatto che senza sinistra radicale non va da nessuna parte, ma che la sinistra radicale è incompatibile con il centro di Casini. E infatti l’Udc genovese già ieri ha annunciato che l’appoggio a Doria non lo darà.

Lo psicodramma collettivo
Un disastro insomma, finito in psicodramma di massa. In molti, dalla Serracchiani al deputato Gero Grassi, come Bersani hanno dato la colpa al meccanismo delle primarie e alle divisioni interne. Il deputato Dario Ginefra è andato oltre: «Le primarie – ha detto – si stanno trasformando da strumento di selezione democratica delle candidature in una forma di suicidio collettivo, che soddisfa lo scontro tribale tra anime del partito». Certamente è una componente che esiste, ma è anche quella a cui aggrapparsi per una lettura di minima. Altri l’hanno capito, e hanno tentato analisi un po’ più articolate. Per il senatore Roberto Della Seta, per esempio, «il Pd paga il prezzo di un profilo troppo timido e opaco nel sostenere un’idea diversa e innovativa di politica e sviluppo», mentre per il deputato Salvatore Vassallo «il problema sta forse nella reputazione dell’attuale classe dirigente, che non pare in grado di corrispondere alla domanda dei suoi elettori». 

Vincenzi scatenata su twitter
Di «guerra interna» e «agitarsi di gruppi di potere dentro e a fianco del Pd», ha scritto su twitter anche la Vincenzi. Scatenata contro il suo partito, la prima cittadina ha aggiunto che «non sono riuscita ad essere discontinua sino in fondo. Speravo che il Pd mi digerisse elaborando il lutto del 2007. Non è successo. Nessuno ha digerito il Pd. Bravi tutti». C’è da dire che l’analisi della Vincenzi non è che sia stata delle più lucide, ma se non altro ha dato la misura di quanto grande sia la confusione sotto al cielo democratico. La Vincenzi, infatti, ha toccato le categorie più varie, in una sintesi mirabile di come tutto e il contrario di tutto possano stare insieme in un unico soggetto. S’è vestita di “anticlericalismo” per dire che «chissà dove sarebbe stato Don Gallo al tempo di Ipazia?». È stata pervasa da furore femminista nel dire che «del resto una donna cosa ne capisce? Penserà mica di essere meglio degli amministrativisti che l’hanno preceduta?»; «Se una donna ti fa pagare il parcheggio dell’auto in doppia fila a cui non rinunci è davvero una megera!»; «Sono come delle lavandaie che litigano. Volgari. Se un uomo va in bicicletta e non dice niente è così carino!». Ha ritrovato anche un femminismo eroico, ricordando che «comunque a Ipazia è andata peggio. Oggi le donne riescono a non farsi uccidere quando perdono»; «Da maggio non ci sarà più un sindaco donna in nessuna grande città italiana né di destra né di sinistra». La prima cittadina, poi, ha reso il suo omaggio al filologicamente corretto, sottolineando che «almeno è finito il tormentone linguistico! Si torni all’antico: sindaca, sindachessa, la sindaco… Che orrore!». S’è dimostrata anti-radical chic, anti-antipolitica e anche anti-apparati: «La cultura, mi raccomando! I nostri intellettuali, i loro giovani studenti, le firme dei giornalisti, la buona borghesia!»; «Nel voto a Doria come voto anticasta. Nel tutti uguali. Viva i predicatori»; «Ma con qualche assessorato si risolverà tutto, vedrai»; «E poi, cosa vuoi che mi importi del bilancio? Si farà come s’è sempre fatto». In tanto esternare, però, la Vincenzi non ha ritenuto di fare autocritica, eppure come «sindachessa» qualche passo falso l’ha commesso anche lei. Uno su tutti: la gestione dell’emergenza alluvione, che ebbe anche il risvolto tragico dei morti. Chi invece non s’è risparmiata autoflagellazioni è stata la Pinotti, caduta in uno stato pre-depressivo: «Credevo di essere utile per Genova come sindaco, ma se dopo questa esperienza nessuno richiederà il mio impegno, valuterò se continuare. Ora come ora è più l’amarezza che la voglia di andare avanti».

Nichi consolatorio, Gigino lancia l’Opa
A tentare di consolarle, comunque, c’era Nichi Vendola. «Non è un giudizio negativo su Marta Vincenzi e Roberta Pinotti, ma Genova chiede un ricambio», ha detto il leader di Sel, per il quale «la gente guarda a chi vuol cimentarsi con i suoi problemi e le sue angosce, con chi è pronto a tutelare i diritti e non si ferma davanti agli “altrimenti”: altrimenti Bruxelles, altrimenti le Borse, altrimenti gli industriali. E Basta!». Ma Vendola ha voluto rassicurare anche i competitors-alleati: «Non coltivo l’obiettivo di sottrarre consensi al Pd. La nostra aspirazione – ha detto – è costruire il cantiere dell’alternativa: bisogna rimescolare le carte del riformismo e del radicalismo per dare vita a una gara delle idee e non dei pregiudizi, portando la sinistra a cercare un compromesso con i moderati, non suicidandosi ma facendo valere le proprie ragioni». A lanciare un’Opa esplicita sul centrosinistra ci ha pensato invece Luigi De Magistris, per il quale il risultato di Genova dimostra che «negli ultimi tempi l’alleanza Sel, Idv e movimenti della società civile sta funzionando in tutto il Paese». «È un segnale forte non solo per le amministrative del 2012, ma soprattutto in prospettiva delle Politiche 2013, e non so dire – ha commentato – se sia merito del candidato o demerito del Pd». Ma proprio Genova ricorda un dettaglio non da poco: certi tipi di alleanze non funzionano. Nella giunta Vincenzi c’erano sia espressioni del mondo cattolico, sia l’Idv sia, fino a un certo punto, il Prc. «Ho provato a tenere insieme una maggioranza impossibile. Quando si tradisce la propria natura non si convince e la discontinuità non funziona», è stato uno dei tanti twit della Vincenzi. Forse uno di quelli che il Pd non dovrebbe liquidare come frutto di una «i-pazia» o di una «possessione».

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