I greci: non moriremo in silenzio
«Pane, educazione e libertà: la dittatura non è finita nel 1973». In ogni manifestazione, ovunque ci sia una protesta, questo è lo slogan cantato a gran voce dai greci. Camminando per le strade di Atene si intuisce che la crisi è una vicenda reale, concreta, entrata nella vita quotidiana di ognuno. Al di là della road map europea, oltre i colloqui internazionali, qui la gente paga in concreto quello che i governanti locali e la svalutazione finanziaria hanno fatto. Rabbia, angoscia per il futuro, nuove povertà e tante voci che si rincorrono su quello che succederà nelle prossime settimane. E poi il fastidio per quello che viene raccontato dei greci, sempre schiacciati tra lo stereotipo dell’ultima ruota del carro europeo e i violenti che scendono in piazza molotov in pugno.
«Siamo cambiati, è vero: ora siamo depressi e ci hanno tolto i sogni. E soprattutto siamo diventati tristi. È così che ci vorrebbero, ma i giovani non ci stanno». Così ci spiega la situazione una giovane barista greca che forse colpisce il punto cruciale della questione: i sentimenti profondi di un popolo che vede un vicolo cieco davanti a sé. «Ci sentiamo colpevoli senza aver fatto nulla – continua la ragazza in un perfetto italiano imparato dalla televisione – ci hanno fatto cadere dal decimo piano senza un paracadute, qualcuno ha forse detto qualcosa? Se io sbaglio nel mio lavoro vengo mandata a casa e invece cosa succede a banchieri e governanti?». E poi, «ma in Italia invece? Voi sarete i prossimi, già vi hanno mandato un uomo delle banche come capo del governo». Qui il dito è sempre puntato contro l’alta finanza, le lobby, la Germania e gli istituti di credito e subito dopo si parla dell’Italia, della Spagna e del Portogallo. «Quando avranno metà dell’Europa contro, cosa faranno?», si chiede davanti a una birra un ultras dell’Olimpiakos di Atene. «La gente scenderà sempre più unita in piazza, non c’è un’altra strada». A fargli eco un rivale, ma per l’occasione di discutere sulla crisi seduto alla stesso tavolo, ultras del Panathinaikos: «Siamo costretti a rimanere a casa dei nostri genitori contro la nostra volontà. I costi aumentano, gli stipendi diminuiscono: con le nuove leggi arriverò a guadagnare 700 euro al mese, ovvero quello che mi davano sei anni fa quando ho cominciato. Noi non potremo mai avere una famiglia, come farei a mantenere anche dei figli?».
Qui ad Atene c’è molta consapevolezza, anche del trattamento riservato ai greci da buona parte dell’opinione pubblica internazionale «che parla della violenza durante le manifestazioni e delle grandi riunioni istituzionali dimenticandosi della gente», sottolinea un supporter dell’Aek Atene. Effettivamente ci sarebbero tante storie da raccontare che ancora in pochi hanno analizzato e divulgato. Camminando tra la piazza del Parlamento e la centralissima Omonia, il numero dei senza fissa dimora è impressionante. A pagare il pegno dei tagli voluti dall’Europa e soprattutto dalla signora Merkel, sono in primis gli anziani: in tanti non hanno più modo di mantenere una casa e finiscono per strada. E allora è facile vedere distribuzioni di cibi e vestiario in mezzo alla strada: dai cittadini che si auto-organizzando alle Ong, in molti allestiscono mense ambulanti per chiunque abbia bisogno, nuovi poveri, migranti, persone comuni. «Ci hanno tolto tutto, manca solo la vita. Siamo pronti a dargli anche quella. Ma moriremo in piedi, noi siamo greci e siamo pronti a combattere per la nostra terra e per la nostra libertà». A dirlo in maniera perentoria è una signora scesa in piazza sabato scorso nella giornata di ringraziamento per tutte le persone che da New York a Mosca, passando per tutta l’Europa, sono scese in piazza al grido «Siamo tutti greci». Quando ci parla, sembra quasi voler urlare la sua rabbia, ma anche la sua voglia di cambiare le cose: qui esiste un’unione intergenerazionale per risollevare il Paese. A ogni manifestazione in piazza Sintagma, di fronte al Parlamento, si radunano giovanissimi e anziani, famiglie e studenti, sindacalisti e gente qualunque. Quello che colpisce è la grande voglia di partecipazione e di parlare con l’esterno per far capire che i greci non sono disposti a subire in silenzio quello che loro considerano un vero e proprio attacco alla nazione. L’attuale governo tecnico viene considerato come una compagine di banchieri al soldo dello straniero e i politici come traditori della piazza. «Qui bisogna ricostruire tutto quanto», dice senza se e senza ma uno studente universitario. La sensazione è che la mobilitazione sia continua, anche quando non ci sono le manifestazioni di piazza. Ci si mobilita sui social network, nei posti di lavoro, all’università, in piccoli capannelli per strada. Si parla di tutto, di come organizzarsi, dei ricatti chiesti dalla Germania, dello scontro sociale che sta per esplodere. C’è chi ci racconta che il numero di suicidi è aumentato dopo l’inizio della crisi. Chi non si spiega come sia possibile che il governo tedesco abbia obbligato la Grecia a spendere proprio in questo momento per carri armati e armi. Chi ancora ricorda i milioni rubati dai nazisti, mentre si ritiravano dalla Grecia: «Non ce l’hanno mai ridati indietro, anche se c’è una sentenza internazionale». Chi addirittura dice che nella polizia ci sarebbero infiltrati degli agenti delle altre polizie europee, perché i poliziotti locali potrebbero titubare nello scontrarsi con la popolazione greca.
Tante sono le voci che si rincorrono e forse non è neanche importante che siano vere o veritiere: il dato sostanziale è che la gente vuole essere informata e far parte del cambiamento, invece di limitarsi ad aspettare le decisioni che vengono da Francoforte o Bruxelles. Non c’è la guerra civile enfatizzata da certa stampa, ma di certo in alcune situazioni la violenza esplode in pochi attimi. Gas usato dalla polizia che blocca il respiro in gola. Sassi che volano contro gli scudi dei celerini. La manifestazione di domenica contro i nuovi tagli chiesti dall’Europa ha un epilogo di scontri tra ragazzi con i volti coperti e l’Astinomìa (la polizia greca).
I retaggi degli anni dei Colonnelli sono ancora ben visibili in una celere, in tanti casi, che non ha rispetto di niente e nessuno: anche i giornalisti stranieri possono quindi diventare un obiettivo dove sfogare la propria rabbia come abbiamo potuto sperimentare in prima persona. E di certo se non fosse stato presente il presidente dell’associazione dei fotoreporter greci, Mario Lollos, i celerini non si sarebbero limitati a qualche spintone, calcio e intimidazione, tra l’altro fatti in una situazione tranquilla e ben lontana dagli scontri, senza possibilità di confusione, avendo macchina fotografica al collo e risposta immediata «I am an italian journalist». Ad Atene, purtroppo, ci sono abituati: sia i giornalisti, che prontamente si sono messi in mezzo tra noi e la polizia e che ci hanno salutato con un diretto «benvenuti in Grecia», sia la popolazione. Non è difficile vedere scene di signore anziane o distinti signori che si fermano davanti alla Astinomìa schierata a protezione del Parlamento e che iniziano a inveire contro i poliziotti “servi dei governanti traditori” o che si buttano in mezzo alla mischia quando un manifestante viene picchiato. «Le persone non dovrebbero essere preoccupati del proprio governo… i governanti dovrebbero avere paura della loro gente», recita uno striscione. I greci vogliono combattere perché la propria terra non venga svenduta e sembra proprio che non faranno alcun passo indietro. Quello che cova sotto la cenere è forse molto peggio di quello che abbiamo visto finora. Nei momenti di violenza nelle strade c’è una piccola esplosione, ma la rabbia continua a rimanere sotto traccia. Non deve e non può essere sottovalutata.