Dopo Genova Bersani si rifugia nel sogno europeo
Ha scritto Pierluigi Bersani su Repubblica di ieri: «Dopo quattro anni siamo usciti dal problema identitario. Non abbiano certo finito il nostro lavoro di costruzione né abbiamo corretto tutti i nostri difetti, ma non siamo più una ipotesi o un esperimento o un partito in cerca di Dna». Stava rispondendo all’editoriale di domenica in cui Eugenio Scalfari gli chiedeva conto di «una proposta di trasformare il Pd in un partito socialdemocratico sullo schema del partito socialista europeo», avanzata da un gruppo di dirigenti democratici. E a questo si è attenuto, spiegando di non essere a conoscenza di un dibattito del genere e chiarendo che «piuttosto si discute, da noi e in Europa, su come configurare i rapporti tra Partito democratico e famiglia dei socialisti europei».
Meglio pensare all’Europa
Per svolgere il suo ragionamento il segretario Pd ha distinto i piani: quello europeo e quello italiano. Il primo è in evoluzione. Bersani ha chiarito che lì il Pd e gli altri partiti della famiglia socialdemocratica lavorano per «la costruzione di un soggetto politico europeo aperto ai riformisti di diversa ispirazione». Sul piano italiano, invece, i contorni sono ormai definiti. In Italia, è la tesi di Bersani, il Pd ha trovato la sua collocazione, ha costruito la sua identità, appunto. «Siamo un partito progressista, un partito del lavoro, della Costituzione, dell’Unità della nazione. Un partito profondamente europeista. Ormai esistiamo. Non possiamo più permetterci sedute psicanalitiche. Il nostro profilo – ha scritto – sarà semplicemente il prodotto di quello che diremo e faremo per l’Italia e l’Europa, sostenendo i valori e gli interessi che vogliamo rappresentare».
Ma dalla psicanalisi non si scappa
Bersani, dunque, parla del Pd come di un partito di cultura e impostazione riformista. Dice, anzi, che «ci siamo appassionati alla sintesi di culture riformiste, e vogliamo che vivano contaminandosi e non da separate in casa». All’indomani delle primarie di Genova, però, i confini entro cui si muove il Pd non appaiono affatto netti come li vorrebbe descrivere il suo leader. Non a caso, intorno al loro esito si sono scatenate proprio quelle «sedute psicanalitiche» di cui il segretario non solo non sente affatto il bisogno, ma sembra temere gli effetti. Ieri ancora si discuteva moltissimo della batosta presa dal sindaco Marta Vincenzi e dalla senatrice Roberta Pinotti, «due prime donne», come le ha definite Antonio Di Pietro. E si discuteva moltissimo, in un effetto domino al contrario, delle sconfitte precedenti: Milano, Napoli, Cagliari, tutti luoghi in cui un outsider di Sel e dintorni le ha suonate al «primo partito d’Italia», come ha rivendicato Bersani.
Il tormentone “regole” non basta
Come il giorno prima in molti si sono concentrati sul meccanismo delle primarie. La tesi era più o meno sempre la stessa: se il Pd si presenta diviso è naturale che vinca l’avversario. E giù discussioni sull’opportunità di cambiare il regolamento o di fare delle primarie di partito prima di arrivare a quelle di coalizione. Altri, dentro e fuori il partito, però, hanno ricordato che la faccenda non si possa liquidare così. Per il sindaco di Firenze Matteo Renzi, per esempio, «non serve cambiare le regole: se il tuo candidato non ha vinto non sono le regole sbagliate, ma il tuo candidato». Ma anche questa è una lettura tutto sommato riduttiva, perché poi è vero che gli uomini fanno la differenza ma è anche vero che a monte serve un progetto chiaro che quegli uomini possano incarnare. Più netta è stata la presa di posizione di Concita De Gregorio, che ha parlato delle primarie come di «un termometro, non serve farle sparire per eliminare la febbre». «Il punto – ha aggiunto nel suo approfondimento di ieri su Repubblica – è la distanza dall’elettorato. L’incapacità di leggere la realtà e di capirla. Uno su tre degli elettori del Pd votarono Pisapia a Milano, e sono gli elettori del Pd ad aver votato Doria ieri». Per l’ex direttrice dell’Unità «è il modo più chiaro che i cittadini hanno per parlare ai loro partiti e dire che non è la politica che non vogliono, ma questa politica. Non i partiti, ma questi partiti». La De Gregorio, dunque, ha invitato il Pd ha farsi un esame di coscienza e a compiere un atto di coraggio, cambiando la classe dirigente, azzerando «le guerre intestine» e «le rendite di posizione» e dando spazio «alle competenze, alle passioni, ai talenti». Ancora Repubblica, ieri, riportava anche un’intervista ad Andrea Doria, il vincitore genovese. Il Pd, per Doria, ha sbagliato «nel non ascoltare i cittadini, gli stessi militanti. Sono troppo presi dai vertici, dalle loro questioni». «Roberta Pinotti – ha sottolineato – ha parlato per metà della campagna elettorale del problema delle alleanze successive, con l’Udc, i centristi».
Tra riformismo e massimalismo
È indubbio che per l’elettore medio, tanto più l’elettore delle amministrative, sia più facile appassionarsi al tema del traffico o dei parcheggi che a quello delle alleanze. Ma il problema è che il tema delle alleanze per il Pd è un tema di collocazione politica e, almeno in linea di massima, dovrebbe essere chiarito a monte. Perché altrimenti, checché ne dica Bersani, non si capisce se il Pd sia un partito davvero riformista o se sia un partito con tentazioni massimaliste. O meglio, se possa realizzare la sua vocazione riformista o non debba piuttosto piegarsi al massimalismo altrui. Non è indifferente se il Pd è alleato con Sel e Idv o con il Terzo Polo. Non lo è per la possibilità di esprimere, se non di definire, la propria identità.
Con un piede in due scarpe
Il Pd ne è consapevole ed è consapevole dei rischi che corre, ma preferisce spostare in là la questione. «Se ne parla dopo le elezioni di come sono andate le primarie», ha detto a Youdem Bersani. Ed emblematica è stata anche la risposta che Francesco Boccia ha dato a Giuseppe Fioroni che, sul Messaggero, invitava il partito a «reagire: la colpa non è dello strumento, occorre che il Pd rivendichi la guida delle coalizioni e scelga il candidato vincente». «Occorre coraggio. Coraggio – ha proseguito Fioroni – significa affermare con chiarezza, a tutti i livelli, che il Pd riformatore deve costruire un’alleanza rafforzata, direi federativa, con il Terzo Polo. Perché questo rappresenta il baricentro su cui costruire l’alternativa di governo». «L’unica cosa che chiediamo agli alleati temporanei – ha replicato tra l’altro Boccia – è di non farsi venire ogni volta la tentazione, quando vincono le primarie, di trasformare l’ossessione del ridimensionamento del Pd in una strategia politica». Ne deriva così l’impressione di un Pd che si prende quello che passa il convento, ma che in realtà tenta di stare con un piede in due scarpe, coltivando il sogno di porsi al centro di un’aggregazione enorme che va dall’Udc a Sel. Si tratta di un sogno che si è già rivelato fallimentare più volte e che per ora, nel contesto delle primarie, mentre a livello nazionale il Pd lancia progetti riformisti con il Terzo Polo, ha avuto l’unico risvolto di sbilanciare nel campo della sinistra radicale il Pd e il suo elettorato.