Art. 18? Macché, il problema è la lunghezza dei processi
E se sull’articolo 18 si trovasse un compromesso? Sicuramente parleranno anche di questo governo e parti sociali nel prossimo incontro sulla riforma del lavoro (doveva esserci oggi, ma è stato annullato ieri in serata). I toni, si sa, in queste settimane sono stati parecchio caldi, anche se le indiscrezioni di ieri sembravano lasciar spazio a spiragli per trattare.
L’incontro Monti-Fornero
Per fare il punto sulla linea governativa, intanto, ieri si sono visti, per circa un’ora e mezza, il presidente del Consiglio Mario Monti e il ministro del Welfare Elsa Fornero. Al colloquio erano presenti il viceministro Vittorio Grilli e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà. Fonti governative hanno fatto sapere che l’esecutivo intende andare avanti con una «riforma omnicomprensiva» del lavoro. Nell’incontro a palazzo Chigi si è parlato proprio di questo, anche se la presenza del viceministro dell’Economia fa pensare che la questione della copertura sia fra i punti all’ordine del giorno. E a questo proposito si è ribadito che i problemi di risorse permangono vista la congiuntura economica e i vincoli di bilancio dovuti all’esigenza di raggiungere il pareggio nel 2013. Obiettivo che il governo intende perseguire senza indugi. Fermo restando i paletti di bilancio, si è comunque ribadita la volontà di arrivare ad un’intesa con il massimo consenso possibile. Anche se il governo procederà anche senza il consenso delle parti sociali. È stato affrontato anche il tema dell’articolo 18. Su questo delicato punto la posizione dell’esecutivo non è cambiata: è uno dei punti in discussione, anche se non l’unico. L’intenzione è quella di procedere con un ammodernamento della norma che consenta di ridurre i tempi processuali e di fissare paletti che limitino la discrezionalità del giudice del lavoro. Un modo per dare certezza di diritto e rapidità nelle decisioni non solo a vantaggio delle imprese, ma anche dei lavoratori.
Angeletti: intervenire sulle tempistiche
Una posizione, quest’ultima, che sembrerebbe per nulla lontana, per esempio, da quanto chiesto da Luigi Angeletti, segretario generale della Uil. «Fermo restando che per noi l’articolo 18 non si tocca – ha spiegato – sicuramente uno dei problemi principali su cui intervenire è la lungaggine dei processi. Noi già da tempo sosteniamo che occorra più certezza relativamente ai tempi della giustizia. Ma questo, appunto, non riguarda tanto le norme in sé quanto la loro applicazione. Non si tratta, quindi, di togliere le tutele ma, al contrario, di renderle più efficaci, a beneficio di lavoratori e imprese». Ma c’è di più. Anche l’altro tema posto sul tavolo dal governo (la discrezionalità del giudice) trova una certa rispondenza nelle parole del leader della Uil: «L’altra questione che poniamo – ha infatti aggiunto – è quella di precisare meglio i casi in cui c’è la giusta causa, fornendo una casistica molto più dettagliata. In questo modo avremmo un ulteriore elemento di certezza e lo stesso lavoratore potrebbe sapere con precisione quali suoi comportamenti non sono ammissibili sul posto di lavoro. Si tratterebbe, insomma, di ridurre la discrezionalità del giudice. Porre più paletti di questo tipo ci consentirebbe di lasciare al suo posto l’articolo 18. È di questo che c’è bisogno».
Bologna: troppi 10 anni per una causa
La questione della lunghezza dei processi, in effetti, sembra davvero centrale, molto più della falsa pista dell’articolo 18. Ce lo conferma Giuliano Bologna, già avvocato del lavoro e in passato legale dell’Ugl: «Io credo – ha spiegato – che l’articolo 18 dovrebbe restare, ma bisogna porre in essere tutte le iniziative per accelerare i processi. Bisognerebbe che i giudizi in tema impugnativa di licenziamento avessero una corsia preferenziale e fossero definiti in un periodo di tempo non superiore a due anni per tutti e tre i gradi di giudizio. La lentezza dei processi, oggi, danneggia sia il lavoratore che l’azienda». E cita un episodio reale: «Ricordo un caso recente in cui un licenziamento è stato dichiarato illegittimo in secondo grado dopo un giudizio durato otto anni. Considerando che si trattava di tre lavoratori, il risarcimento danni pari alle retribuzioni non corrisposte ha superato i 600mila euro. Una somma di tal genere è insopportabile per qualsivoglia azienda, soprattutto se privata». Anche perché riguardo a tempistiche stiamo messi veramente male: «Attualmente – ha aggiunto Bologna – i tempi della giustizia, almeno a Roma, sono di tre o quattro anni per il primo grado, tre per il secondo e tre per la cassazione, per un totale di circa dieci anni. Sono tempistiche ingiustificabili, perche creano incertezza assoluta sul futuro sia per il lavoratore sia per l’azienda». Stante questo stati di cose, allora, «occorre applicare il rito del lavoro per come previsto dalle norme, intervenendo su tutti i processi collaterali che impediscono al processo del lavoro di funzionare come nello spirito originario. I processi collaterali riguardano anche il recupero di efficienza della amministrazioni pubbliche (nelle cause di invalidità si può, comunque, cercare di delegare il più possibile ai consulenti tecnici, come peraltro si è già iniziato a fare), la semplificazione della contrattazione collettiva, la uniformità delle clausole in tema disciplinare e in tema licenziamenti, la tipizzazione della normativa disciplinare che costituisca anche un vincolo per il giudice. Credo che intervenire in questo senso sul tema dell’articolo 18 potrebbe essere un buon compromesso tra chi dice di abolirlo e chi vorrebbe lasciarlo così com’è».