Ecco perché ricordare il “Bloody Sunday”
Se Acab non è solo un film, Sunday Bloody Sunday non è solo una canzone. In questi giorni in cui – complice il film un po’ furbetto di Stefano Sollima – si sta tornando a discutere degli abusi polizieschi che anche in tempi recentissimi hanno causato vittime, persino nella civilissima Italia del terzo millennio, non fa male ricordare i 40 anni dalla strage di (London)Derry. Un episodio di rara brutalità, che ancora oggi segna l’identità della cittadina dell’Ulster, forse più di quanto non accada con la stessa Belfast, dove la memoria dei Troubles è confinata nei quartieri militanti, per lasciare spazio, in centro, alla londonizzazione dei costumi. Era il 30 gennaio del 1972 quando a Derry (violentata già nella denominazione ufficiale dalla giustapposizione nominale della capitale occupante) 14 manifestanti per i diritti civili, fra cui diversi ragazzini, vennero falciati dalle forze speciali britanniche. I militari inviati nell’Irlanda del nord da Londra aprirono il fuoco per primi, senza alcuna forma di avvertimento. Nessuna esplosione, nessun sasso, nessuna bottiglia molotov a giustificare il fuoco. Molti di coloro che furono colpiti stavano semplicemente fuggendo alla carica, o cercando di aiutare altri feriti. Nessuna delle vittime poneva un problema alla sicurezza dei militari. Tutto questo accadeva non nella Repubblica Centroafricana di Bokassa ma in piena Europa, dove un residuo di colonialismo ottocentesco da parte della nazione madre della democrazia strangolava un popolo orgoglioso e fiero. Per carità, la questione nordirlandese presenta anche stratificazioni, complicazioni, contraddizioni. Nessuna visione manichea, quindi, anche perché lo stesso fronte repubblicano non è mai stato esente da lati oscuri. Ma in quelle 14 vittime inermi c’è un dramma sanguinante che travalica i confini dell’Isola verde. C’è il problema di diritti, verità e valori che l’Occidente ha imposto in mezzo mondo restandone troppo spesso sprovvisto nei propri magazzini etici.