Il “Caffè” scorretto di Corradino Mineo

9 Nov 2011 20:30 - di

«Se voglio sapere che cosa pensa Craxi ascolto cosa dice o non dice Onofrio Pirrotta sul Tg2, se voglio sapere che cosa pensa Occhetto sento cosa dice o non dice Corradino Mineo sul Tg3». C’era ancora il Pci a Botteghe Oscure quando l’allora senatore comunista Emanuele Macaluso sull’Unità rendeva plasticamente idea di come funzionassero le cose in Rai.
Vent’anni dopo, grazie al digitale terrestre, Mineo offre la versione 2.0, di quel che resta dell’informazione postcomunista. Ogni mattina il direttore di Rainews conduce in prima persona la rubrica Il Caffè indirizzando la rassegna stampa in maniera talmente parziale da essersi guadagnato il meritato appellativo di “Emilio Fede rosso”.
Martedì ha ironizzato sulla prima pagina di questo giornale evocando un clima da «Repubblica di Salò». Del resto, come insegnava James Hillman, ognuno evoca i suoi archetipi. Quelli di Mineo restano quelli del redattore del manifesto,  incluso il repertorio del perfetto antifascista militante. Non è una novità la scelta del giornalista palermitano di usare la sua rubrica come un salotto radical chic dove ironizzare sugli avversari politici e compiacere gli amici. Una linea editoriale coerente con il cursusm honorum. Arrivato nel 1987 in Rai nel mitico Tg3 di Sandro Curzi che per la sua faziosità si era guadagnato l’etichetta di TeleKabul, è diventato direttore di Rainews nel periodo in cui Curzi è stato consigliere d’amministrazione Rai. Coincidenza non fortuita, dato che Mineo è sempre stato il pupillo dello storico responsabile della propaganda del Pci di Togliatti e Longo.
I cinque anni alla guida della rete “all news” sono quasi un record di longevità per le testate giornalistiche di viale Mazzini. C’è anche un motivo. Appena un direttore generale prova a ipotizzare un cambio della guardia sulla poltrona di Rainews, scattano i pretoriani della sinistra. Se cambiare un altro direttore è un «avvicendamento», spostare Mineo è un «attentato all’informazione». Dall’Usigrai a Paolo Gentiloni, da Giuseppe Giulietti a Vincenzo Vita si muovono tutti come un sol uomo. Il paradosso è che il direttore in questione va su tutte le furie se solo qualcuno gli fa notare la faziosità del suo prodotto giornalistico. Poco importa che, quando parla della Lega, imita la voce di Umberto Bossi o fa battute da cabaret. Umorismo a intermittenza, perché quando intervista il segretario Pd dimentica le lezioni di giornalismo anglosassone (apprese negli anni da corrispondente dagli Stati Uniti) e sfodera domande alla Marzullo. «Bersani, provi a farsi una domanda e a darsi una risposta» (Festa del Pd a Roma del 22 luglio).
Se invece si tratta del Pdl l’accusa più comune è quella di essere dei biechi censori. L’ultima polemica è stata con Alessio Butti, che si lamentava, per l’impostazione della diretta della manifestazione di Roma del 15 ottobre. Mentre i black bloc devastavano la città, la cronaca offerta da Rainews descriveva un clima idilliaco da far invidia al Family Day. Giusto mostrare solo la faccia presentabile degli indignados? Quella di Butti,  replicava l’indignato Mineo, «è una guerra civile simulata» «questo modo di fare distrugge l’informazione ed è un attentato alla democrazia». Perché TeleKabul 2.0 funziona così: Corradino ha sempre ragione e chi non è d’accordo è contro la democrazia.

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