Combattenti senza volto: Task force 45
La “mitica” Task Force 45 è l’unità che raggruppa le forze speciali italiane impegnate in Afghanistan, nell’ambito della missione Isaf, sotto il cui comando operano. Un soggetto molto difficile in quanto le forze speciali non sono praticamente avvicinabili. Divieto quasi assoluto tanto che, fino alla morte in combattimento di uno dei suoi componenti, in molti ignoravano la sua esistenza. Si tratta di uomini che fanno enormi sacrifici, rischiano molto ma hanno fornito un grande contributo alla stabilizzazione di un’area vastissima, sempre primi nelle operazioni e spesso sola presenza Isaf in aree ostili. I risultati ottenuti sono stati eccellenti. Una campagna eccezionale di cui si sa pochissimo ma un impegno e un coraggio a cui la rivista militare Raids ha dato nell’ultimo numero una certa visibilità in un reportage del quale pubblichiamo ampi stralci. La loro attività è molto apprezzata anche in ambito internazionale.
Il tema è difficilissimo perché, con il passare degli anni, tutto il settore delle forze speciali ha visto un drastico taglio delle occasioni d’informazione per i giornalisti, imposto non tanto e non solo da scelte politiche quanto da precise esigenze operative. Quando lo scorso anno si ebbe a registrare la dolorosa perdita nel settembre 2010, del capitano Alessandro Romani, appartenente al reggimento Col Moschin, qualche giornalista ammise in tv di aver scoperto solo allora l’esistenza della Task Force 45. Notiamo come le immagini disponibili siano veramente poche. Guardate quante foto recenti dei Sas britannici o dei Berretti Verdi statunitensi siano in circolazione. Per gli incursori britannici il numero oggi è pari a zero, mentre prima qualche rara immagine usciva dal reparto.
La TF-45 oggi è impiegata solo a ruoli molto impegnativi, in spazi immensi, contro un avversario particolarmente insidioso, un compito insomma consono alle forze speciali. Il loro impegno si è diretto verso azioni per individuare unità ostili e, se del caso, eliminarle, come accadde nella circostanza che vide la morte del capitano Romani. Invece di attendere le azioni degli avversari, sempre molto difficili da prevenire, si lanciano delle operazioni preventive, in modo da coglierli di sorpresa, anche dove non se lo attendevano, creando un senso di grande insicurezza tra i nemici.
Le operazioni delle forze speciali in Afghanistan hanno sempre pericoli considerevoli. Non solo si rischia di affrontare forze preponderanti o di saltare su di un ordigno, ma anche incidenti non bellici (come una banale appendicite) possono creare situazioni molto delicate. I nostri incursori sono stati impegnati in moltissime azioni, con una serie di scontri a fuoco veramente notevole, da cui sono usciti sempre vincitori. Di tutta questa attività non è emerso mai niente, per i motivi di sicurezza a cui facevamo riferimento. Sono state distribuite anche varie onorificenze ma, salvo in un caso (la consegna avvenne a Livorno durante la festa dei paracadutisti), il pubblico non ne è mai stato informato. Non conosciamo i loro nomi e i loro volti ma dobbiamo sapere che l’Italia ha accumulato un grosso debito di riconoscenza nei loro riguardi. Possiamo tranquillamente affermare che sono i degni eredi delle forze speciali italiane della Seconda Guerra Mondiale, degli incursori della X Mas ma anche del X Reggimento Arditi, degli Arditi Distruttori della Regia Aeronautica e dei Nuotatori Paracadutisti del San Marco. Ci appaiono come ombre indistinte, fugaci apparenze, una “forza senza volto” ma è una presenza che tranquillizza e che ci riempe d’orgoglio.
Le forze speciali italiane sono state presenti in tutte le missioni all’estero, magari con piccole ma qualificate aliquote: Libano, Kurdistan, Somalia, dove cadde il sergente dei parà Stefano Paolicchi, primo membro delle forze speciali a cadere in combattimento dalla fine della II Guerra Mondiale, poi Ruanda, Balcani, Timor Est, Iraq, Afghanistan, fino all’odierna Libia.
Subito dopo l’11 settembre 2001, venne lanciata “Enduring freedom”, a cui l’Italia dette il suo appoggio, prima ancora che partisse Isaf. Un gruppo navale, con anche la portaerei Garibaldi, fu inviato nell’Oceano Indiano, con bordo elementi del Goi. Quando il gruppo navale si ritirò, gli Stati Uniti chiesero che rimanessero a bordo delle loro navi il distaccamento del Goi, per operare con i Seal, con cui vi sono costanti rapporti. Forse furono proprio gli uomini con il basco verde i primi militari a mettere piede in Afghanistan. Di sicuro con il primo C-130 J giunto a Kabul, in dicembre, vi era anche un distaccamento del Col Moschin. Per la missione a Khost, affidata agli alpini e ai paracadutisti, vennero preparati distaccamenti del Goi e del Col Moschin, destinati a operare in modo congiunto, secondo una formula destinata a divenire ricorrente. In questo contesto furono sviluppate le prime operazioni in territorio ostile, mettendo a punto le tattiche operative più efficaci per questo contesto. Per la prima volta le nostre forze speciali si trovarono a operare nell’impegnativo teatro operativo dei monti dell’Afghanistan. In estate si registrano alte temperature che, unite alla quota, impegnano molto la resistenza fisica, per cui si dovette tenere ben presente questo fattore in sede di pianificazione operativa. Le operazioni ebbero tutte successo e il contingente non ebbe a registrare perdite. La missione Isaf si concentrava esclusivamente nell’area di Kabul mentre sul resto del Paese agiva Enduring freedom. All’Italia venne assegnato il comando del Regional Comand West con sede a Herat. Questo significava un’area che comprende la parte occidentale del Paese. Per prima cosa bisognava vedere dove potersi installare e per questo fu inviato a Herat il comandante Vianini, esperto operatore del Goi e poi al Cofs. Il comandante, veterano di tante missioni, decise di rientrare a Kabul con un volo di linea interno afghano, ma complice le avverse condizioni meteo, il velivolo si schiantò su di una montagna nell’area di Kabul il3 febbraio 2005. Si trattò del primo caduto delle forze speciali nel Paese. Alla sua memoria fu intitolata l’installazione che gli italiani realizzarono all’interno di Herat, dove ha sede il Cimic.
L’intervento delle forze speciali italiane prese il nome di operazione Sarissa, dal nome di una corta lancia impiegata a suo tempo dai guerrieri macedoni. Londra e Roma decisero di realizzare il comando congiunto delle forze speciali di Isaf. L’impiego della TF-45 era stato deciso dal governo Berlusconi, ma quando, nel 2006, si registrò una vittoria del centro-sinistra, l’organizzazione dell’unità e il suo schieramento proseguirono ma i politici avevano problemi a presentare questo tipo di operazioni e non solo non vennero rilasciate informazioni ma l’attività fu relativamente ridotta, creando un certo malumore fra il personale, per niente incline a starsene inoperoso quando contingenti alleati erano impegnati in combattimenti nell’area. Le cose per fortuna cambiarono nel 2008. Da quel momento l’intero contingente poté operare in modo più dinamico, incrementando le attività e l’area effettivamente controllata, spingendosi fino alla remota Bala Murghab, all’estremità settentrionale dell’area di responsabilità e nell’area di Farah, all’estremità meridionale del dispositivo del Rc West.