La nazione è viva, lo Stato…

7 Set 2011 20:39 - di

Una data ingombrante che ancora pesa sulla storia d’Italia: 8 settembre 1943. Secondo un filone imterpretativo di grande impatto, inaugurato da Ernesto Galli della Loggia alla metà degli anni ‘90, segnò irrimediabilmente «la morte della patria», fu un’esperienza lacerante che dilaniò la coscienza nazionale. Anche Renzo De Felice, nella sua intervista Il Rosso e il nero che ha fatto molto discutere, riassumendo le sue tesi innovative sul fascismo e l’antifascismo, ha puntato i riflettori sulla perdita del senso di identità nazionale degli italiani. Con l’8 settembre si sarebbe consumata, nella coscienza popolare degli italiani, una catastrofe ideale, la perdita dell’idea di nazione che avrebbe «minato per sempre la memoria collettiva nazionale».
Da allora per decenni quella fine ha segnato la storia politica, sociale e civile, sostituendosi con l’egoismo, il campanilismo, il conflitto strisciante, insomma, indebolendo il senso di una comune identità di nazione e di popolo. L’internazionalismo della sinistra, l’utopia della “cittadinanza del mondo” hanno prevalso fino ai primi vagiti di recupero del senso di un’appartenenza comune (non solo territoriale) sollecitati per reazione dal pressing della Lega in chiave secessionista (e poi federalista). Oggi gli appelli al sentimento di patria sono un refrain a tutte le latitudini politiche: tutti ne invocano la priorità, ma in pochi sanno passare dall’astrazione ai fatti. Da dove partire, al di là della stanca rivisitazione dell’epopea risorgimentale? «Bisogna ricominciare dall’orgoglio di essere italiani, e trovare le ragioni per esserlo…», semplice in fondo. Giordano Bruno Guerri, fresco di successo editoriale con il suo ultimo libro Il sangue del Sud, linguaggio diretto e allergico alla retorica, non ha molti dubbi sullo stato dell’arte. «Non direi che manchi l’amore di patria, semmai è lo Stato a vedersela male», dice sornione.

Ma l’8 settembre fu davvero la fine della patria?

Direi che è stasto uno spartiacque soprattutto simbolico, di comodo. Non  si può pensare che in un giorno tutti gli italiani si siano rotti i coglioni della patria, non fu così. Molti si erano illusi affidandosi allo Stato forte, sul fronte opposto si aspettava la liberazione come fonte di felicità per tutti. L’8 settembre fu una profonda delusione, collettiva.

Non fu la pietra tombale della nazione? Non fu un “fuggi fuggi” generale?

In realtà gli italiani hanno fatto scelte forti: i più hanno deciso di reinterpretare la nazione scegliendo una strada, altri hanno preferito l’altro fronte L’8 settembrre è una data di comodo per individuare una frattura profonda nel tessuto italiano.

Negli ultimi tempi non si contano gli impegni solenni delle istituzioni per rimpolpare il sentimento nazionale. Anche la sinistra internazionalista ha scoperto il pathos della bandiera…

Se ne è tornati a parlare con Ciampi e si sono raggiunti buoni risultati, oggi non direi che manchi l’amor patrio, tutti si commuovono sulle note dell’inno di Mameli e amano il tricolore. Semmai a essere in difficoltà è lo Stato.

Sta dicendo che questi moniti dall’alto sono un alibi per nascondere altri problemi?

È un alibi dello Stato che nel nome dell’appartenenza nazionale, in fondo chiede di pagare le tasse, di superare insieme le sue inefficienze, le non risposte. Poi va detto che le minacce al sentimento nazionale vengono da lontano, non dal nostro Paese. Con la globalizzazione, parola che non mi piace, il mondo si è fatto enormente più vasto: siamo diventati tutti cittadini del mondo, tutti abbiamo in tasca l’eruro, tutti fanno l’Erasmus, tutti pssono connettersi su facebook.

È un male?

Non lo so, è la realtà, un fenomeno inevitabile. L’unica risposta è quella di tornare ad essere orgogliosi di essere italiani.

Che cosa significa, fuor di retorica, rifondare il sentimento di patria. Che ci mettiamo dentro questo orgoglio?

Un paese ben governato, un paese che fa cultura, un paese dove non ti rompomo le palle, dove non si viene additati per problemi meschini di ogni genere.

Si può dire, senza ricorrere alla tanta abusata crisi dei valori, che il problema è di natura etica?

Ma certo, è naturale. Non è un fatto normativo, legislativo.

Che ruolo giocano gli intellettuali?

Il compito di uno scrittore, di un letterato non è quello di orientare, di dare lezioni. Gli intellettuali non devono svolgere un ruolo pedagogico, non è più così dai tempi di Bottai. Semmai sono i docenti universitari, gli uomini preposti alla formazione, che devono dare gli stimoli per una produzione culturale alta non finalizzate alle vendite in libreria o al successo personale.

C’è ancora molto da pedalare…

Basta capirsi. Una bellissima canzone contro la patria può essere più utile di un convegno sull’identità della nazione.

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