Show dell’Idv per i fotografi di Palazzo Madama
Gridano al «regime» i “sinceri” democratici che hanno ha cuore la giustizia e l’equità, quelli che oggi si scandalizzano per il voto di fiducia di cui abuserebbe il governo per scodellare le ormai famigerate “leggi ad personam" (praticamente tutti i provverdimenti che escono dalla penna della maggioranza serva di re Silvio), ma che dai banchi della maggioranza con Romano Prodi lo utilizzavano come una panacea per neutralizzare l’«irresponsabile ostruzionismo» dell’opposizione (becera e oscurantista) di centrodestra. Sventolano cartelli grondanti indignazione («Ladri di giustizia!») i deputati-militanti dipietristi ossessionati dalla tirannide del Cavaliere del male che, pur di salvarsi dalle sbarre, costringerebbe il Parlamento a votare una riforma del rito abbreviato cucita addosso alle sue esigenze. Ironizzano con un certo cattivo gusto (capitanati da Anna Finocchiaro in versione Erinni) sulla mancanza in aula del premier («all’assenza dall’approvazione della manovra qui al Senato si rispose dicendo che il presidente Berlusconi era scivolato su una saponetta. Mi chiedo se stamattina, vista la sua assenza, si sia strozzato con il dentifricio»), che per definizione è sempre un ostacolo alla democrazia, se partecipa ai lavori perché influenza il voto, se è assente perché scappa dalle sue responsabilità.
Da Torino il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Michele Vietti, fa la sua parte sparando ad alzo zero sul “processo lungo”, la dizione coniata dalla disinformazione mediatica per definire la riforma del rito abbreviato che rende subito l’idea della legge-fregatura. È un obbrobrio legislativo che va «nella direzione opposta rispetto all’Europa» e costituisce bla «un precedente», bla, «gravissimo», bla bla. Si fanno notare i falchi finiani accusando il governo di gravissime responsabilità, («l’approvazione attraverso il voto di fiducia del processo lungo certamente farà rivoltare nella tomba, nel giorno dell’anniversario del suo martirio, Rocco Chinnici. Chi ha dato la vita per difendere lo stato di diritto e la legalità», tuona Fabio Granata). Ultimi scampoli scalmanati di cronaca parlamentare, ultimi gazzarre pre-balneari prima della pausa estiva animate da un centrosinistra stanco che ripete come un disco incantato il solito refrain. In questo clima da ola antiberlusconiana si consuma il voto di fiducia sul disegno di legge che modifica il rito abbreviato. Il provvedimento, che ora passa all’esame della Camera, è approvato con 160 voti a favore (Pdl, Lega e Coesione nazionale) e 139 contrari (Pd, Idv, Udc e Terzo polo). Sono caduti nel vuoto i tentativi un po’ goffi del Pd di mettere zizzania nella maggioranza stuzzicando gli istinti anti-Cav del Carroccio. La Lega non ha dubbi sul da farsi e alla fine la Finocchiaro è costretta a processare «la sciatteria con cui i senatori del Pdl e della Lega hanno espresso il loro voto sul ddl».
Confermate le previsioni barricadere della vigilia con l’opposizione che strepita, arroccata contro il ddl, che pure era passato senza tempesta alla Camera ed è stato licenziato senza clamori in commissione giustizia del Senato. Misteri della politica. Dimostrando di aver letto molto frettolosamente le carte e di essere ossessionati dai processi del premier, da giorni le prime file del Pd hanno alzato un fuoco di fila, prima tentando il blitz sulla calendarizzazione, poi giocando alle eccezioni di costituzionalità (ne hanno presentate ben 11), poi minacciando sfracelli fino alla decisione del Consiglio dei ministri di porre la fiducia.
Ma dov è lo scempio della giustizia? L’effetto «devastante» come denuncia il dipietrista Luigi Li Gotti? Il disegno di legge, dedicato all’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con l’ergastolo, in corso d’opera si à arricchito di altre novità che riguardano il dibattimento nel direzione del bilanciamento tra accusa e difesa, come previsto dall’articolo 111 della Costituzione. La riforma prevede che il difensore ha «facoltà di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a favore dell’imputato». Tanto basta per gridare allo scandalo perché, lo sanno tutti, «si finirebbe col beneficiare Silvio Berlusconi nei processi che lo riguardano». Tanto basta per far dire che il processo si allungherebbe all’infinito e far scatenare la fantasia dell’opposizione che arriva a dire che «con questo scempio» nel processo Ruby il premier potrebbe citare come testi tutte le escort del pianeta. Fantasia con la quale si è dovuto districare pure il neo ministro della Giustizia, Francesco Nitto Palma, al suo battesimo in aula. Incredulo da tanto clamore per nulla, completo grigio scuro e cravatta blu, il Guardasigilli prova a rimettere in ordine le tessere di un puzzle impazzito. «Il processo lungo appena passato al Senato? Si dicono tante inesattezze… C’è stata tanta discussione mediatica e tante inesattezze, ma non avrà nessun effetto deflagrante». Inesattezze, campagne mediatiche di disinformazione (persino Famiglia Cristiana accusa il processo lungo di dare un aiutino a Cosa Nostra, senza sapere che le correzioni apportate non riguardano i processi di mafia). Inesattezze e fuor d’opera che dimostrano che per qualcuno è tempo di andare al mare a riposarsi. Uno di questi potrebbe esserre il sindaco di Sesto San Giovanni, Giorgio Oldrini, che ha preso molto male alcuni passaggi dell’intervento in aula di Maurizio Gasparri e ha minacciato di querelare l’esponente del Pdl per aver detto che «se c’è un regime, lo si vada a cercare a Sesto San Giovanni». Apriti cielo. Questa parola si può e si deve usare solo per il governo e la tirannide della maggioranza… «Leggo le offese che mi rivolge un tale Oldrini, il cui nome non ho fatto al Senato, e che dimostra di avere una gran coda di paglia», commenta Gasparri, «in ogni caso penso tutto il male possibile del sistema di potere che la sinistra ha imposto alla città di Sesto San Giovanni, che ne è la prima vittima, e rivendico la libertà di esprimere le mie idee in Senato».