Ma i tigrotti di Mompracem erano un’altra cosa

28 Lug 2011 20:07 - di

Yanez de Gomera, raccontaci com’era.., canta il cantautore “laghè” Davide Van De Sfroos in una trascinante ballata che immagina gli epigoni di Emilio Salgari nel mondo di oggi. E quel «furbo portoghese» che fumava sempre «l’ennesima sigaretta», amico fraterno di Sandokan e compagnia, unico bianco accettato sul sacro suolo di Mompracem (la base della Tigre della Malesia), se potesse davvero raccontarci come andavano le cose a quei tempi, avrebbe certo un sommo disprezzo per quei suoi imitatori odierni che a bordo di barchini e con in mano i Kalashnikov (altro che nobile kriss) attaccano e sequestrano mercantili disarmati con a bordo marinai altrettanto inermi. E lo fanno – questi ultimi – solo ed esclusivamente per soldi: non c’è voglia o pensiero di indipendenza, di riscatto sociale, di desiderio di avventura e, perché no?, di spirito sportivo, che caratterizzava Sandokan, Yanez, Tremal Naik e il fido Kammamuri e tutti i loro mitici tigrotti.
Vuoi mettere la differenza, dopo l’arrembaggio, tra il tornare nel porto sicuro sull’isola imprendibile di Mompracem, divenuto il regno della Tigre, e festeggiare il bottino sottratto agli invasori britannici, per affrontare i quali ci voleva una bella dose di coraggio, e il tornare in qualche villaggio di pescatori della Somalia, ormai terra senza legge, e dover eseguire gli ordini di coloro che dirigono il vasto business dei sequestri di mercantili, per i quali i pirati non sono che miserabili pedine? C’è una bella differenza tra i liberi pirati cantati da Salgari nel suo cosiddetto “ciclo malesiano” e gli operai del crimine contemporanei che arricchiscono con le loro imprese i santuari di al Qaeda e anche le tasche degli armatori somali. Sì, perché, pochi lo sanno, finora nessun cargo di proprietà di uomini d’affari della nostra ex colonia è stato mai preso di mira dai barchini armati.
È vero che, rispetto a oggi, dove sono relativamente poche le vittime dei pirati moderni (circa una decina di marinai uccisi perlopiù per errore), si assisteva ad autentici e crudeli bagni di sangue, sia da una parte che dall’altra: le cannonate fioccavano come grandine, e i soldati di Sua Maestà cadevano come birilli sotto i colpi di scimitarra della Tigre e dei tigrotti. Però lì c’era una guerra (Salgari ambienta le sue avventure intorno alla metà del 1800), dove una nazione vista dagli abitanti locali come aliena si impossessava delle risorse asiatiche con la forza e con lo sfruttamento. Sandokan era visto come un libertador, come un leader, e guai a chi lo toccava. In Somalia è tutto l’inverso: un pugno di disperati senza alternativa rischiano la vita per arricchire  i signori della guerra e degli affari, colpendo forze produttive creatrici di sviluppo e di lavoro e imprigionando “operai del mare” inoffensivi. Le operazioni marine di Nato e Ue riescono a contrastarli (quando li trovano). Ma contro i tigrotti di Mompracem non ce l’avrebbero fatta.

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