Casta: il “nemico”. Stella e Rizzo allievi di Schmitt
In principio – siamo nel 2007 – fu La Casta. E da quel giorno questa divenne il verbo, l’abbecedario con cui districarsi tra le maglie del linguaggio della politica proprio nel momento in cui il concetto di rappresentanza entrava letteralmente nella sua “età del ferro”. Con questo termine una nuova categoria – sospesa temporalmente, tipicizzata essenzialmente come negativa – ha trovato il testo che ne ha decantato le gesta in mille furberie e oscenità che contraddistinguono, come si legge nel libro, diversi interpreti della Seconda repubblica.
I “padri” della Casta
Questo è il senso che Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, gli autori del best-seller che ha dato corpo e “oggetto” all’indignazione orfana da troppo tempo di un “manifesto”, hanno dato all’operazione editoriale più riuscita (ed emulata, a sinistra come a destra) degli ultimi anni. Da quel momento, dunque, non vi è stata più differenza ideologica né biografia: stessa cosa – almeno nella percezione popolare – sono l’operaio della Thyssen che varca per la prima volta l’aula con uno che è parlamentare da quattro legislature. Tutti, in qualche modo, fanno parte della casta.
Nulla di nuovo sotto il sole, per carità. Non solo perché l’antipolitica è vecchia almeno quanto Roma: basti pensare alla pratica della satira latina. Solo che i due bravi giornalisti, grazie anche al traino del Corriere della Sera e alla loro capacità di aver saputo rendere sistemica e trascinante la narrazione, hanno consegnato un vero e proprio immaginario (dalle comunità montane alle pensioni d’oro) così forte che è diventato luogo comune. I risultati – complice una classe politica che troppo spesso ha servito assist con la sua condotta – sono sotto gli occhi di tutti: la delegittimazione di un’istituzione che non ha la capacità preservare l’oggetto costituzionale che rappresenta. E la riprova, ultima in ordine di tempo, è stata la votazione dell’arresto di Alfonso Papa che ha dato in pasto «all’opinione pubblica eccitata, una specie di ordalia tribale mascherata da libertà di coscienza, uno dei nostri, un quaquaraquà sacrificale», come scriveva Giuliano Ferrara sul Foglio riproponendo un ipotizzabile ragionamento di molti colleghi di Papa.
Nulla di nuovo, dunque. Perché in fondo è lo stesso meccanismo – seppur in forma post-ideologica – del pensiero politico di un classico. Quello teorizzato da Carl Schmitt per l’esattezza, con il concetto di amico-nemico. E allora quell’odio informe che – dopo il crollo della Prima repubblica era rimasto senza “l’altro” – che covava sotto le ceneri è riemerso. L’odio come meccanismo di riconoscimento, la rete come strumento di condivisione. Non più il politico corrotto, ma il sistema dei politici è corrotto. Anzi, la corruzione è la politica. Per questo motivo il Parlamento è divenuto un luogo appestato, il simbolo marcescente del privilegio. Non solo Rizzo e Stella comunque. A cascata è sorta anche tutta una letteratura – libri, siti internet, quotidiani e trasmissioni televisive – che da parte sua ha un obiettivo: stanare tutti gli ambiti in cui si cova il “potente” di turno. E, grazie a questo, portare alla luce gli ulteriori “untori”, le altre caste: che, come ha dimostrato un’inchiesta pubblicata questa settimana da Panorama, comprendono milioni di cittadini (anche gli infermieri lo sarebbero…).
Precari, l’altra faccia
Ma, come è ovvio, non solo di casta è composta questa neo-lingua. Contraltare, altro polo è quello rappresentato dal precario. Anche questo è un tipo senza tempo, senza storia, senza differenze. Precario è (giustamente!) il lavoratore subordinato che guadagna mille euro ma lo è anche il consulente Rai o tutta una serie di figure che – pedigree alla mano – mal si conciliano con lo status. Su questi due assi – su questa polarizzazione – si gioca allora gran parte del dibattito nel nostro paese. E non solo, ma si rinnova la stessa dialettica servo-padrone. Al centro di tutto questo, impaurito, c’è quello che si potrebbe definire un nuovo ceto medio: impaurito perché non vuole in nessun modo entrare nella prima categoria. Ma, allo stesso tempo, sospinto da un moto di rabbia – o invidia sociale – per le caste di cui sopra.
Il prezzo di tutto ciò è molto alto: non solo la credibilità della classe politica. Ma un’oggettiva narrazione dell’incubo: amplificata anche dal fatto che i due termini fanno ormai parte del linguaggio dell’Italia nel mondo (“casta” e “precario” rimbalzano ormai su El Pais come su Le Monde). Perché è evidente, da un lato, come le misure di autoregolamentazione della politica da sole non basteranno mai: il popolo vorrà sempre di più. Così come, dall’altro, in un paese bloccato e cresciuto con il mito del posto fisso e ben oltre le proprie reali possibilità, la situazione del precario corre il rischio di diventare cronica.
Un’idea al posto dell’«odio»
Che cosa resta? Una visione decostruzionista, che ha esasperato e strumentalizzato il lavoro scrupoloso e giornalistico di Rizzo e Stella. Non c’è idea, né un progetto nel mero “odio” anti-casta nella sua declinazione populista. Nelle fantasie di chi alimenta l’anti-casta, ci piacerebbe sapere quale forma nuova di politica o di potere si auspichi. Sarà affidato per caso il ruolo di decisore ad un conduttore televisivo o ai firmatari di appelli per professione? Per il momento – ahinoi – esiste solo l’indicazione del nemico: la casta. Da abbattere a ogni costo. Poi verrà il turno delle altre.