Progressisti, ma di che? È la sinistra dei retrogradi
Li chiamavano progressisti. Ora sono quelli che… “lasciamo tutto com’è”. Opinionisti e politici della sinistra, salottieri radical chic, intellettuali d’area (o presunti tali), giovani promesse e pensatori dall’aspetto un po’ trasandato, hanno abbandonato la linea rivoluzionaria, l’antica voglia di ribaltare la società e si sono rifugiati nella strenua difesa dello status quo. Non sono conservatori nel senso nobile del termine, perché non si pongono l’obiettivo di salvaguardare le nostre tradizioni e la nostra cultura. E neppure reazionari. Sono retrogradi, nient’altro che retrogradi. Sul nucleare, al di là di come la si pensi, si sono gettati a capofitto per cavalcare la paura in chiave antiberlusconiana, senza dare uno straccio di alternativa in materia di energia. Sull’acqua si sono aggrappati agli slogan per far rimanere tutto intatto, senza neppure porsi il problema che, oltre alla questione dei privati, c’è tutto un sistema che non va. Sulla riforma delle elementari hanno fatto le barricate, sembrava quasi che crollasse il modello scolastico e la finalità, come al solito, era quella di non muovere neppure una sedia. Idem in merito alle altre svolte degli istituti superiori. Sulla riforma universitaria stesso discorso, poco importa se, a conti fatti, la difesa dello status quo diventava anche la difesa dei baroni. Una sinistra retrograda, dunque, con poche prospettive concettuali, che si regge solo sulla macchina propagandistica.
L’idea è quella di ricondurre tutto alla guerra delle parole, combattuta da alcuni decenni e spesso vinta – sia pure pro tempore – anche perché gli avversari (sia a destra che al centro) spesso hanno perfino evitato di scendere nell’arena. Eppure essere progressisti, almeno per quanto riguarda il significato del termine, dovrebbe significare sguardo rivolto al futuro e comportamenti tali da favorire le innovazioni. Così non è. Pd e relativa corte della sinistra estrema accusano l’intero panorama dei partiti “nemici” di essere oscurantisti, ma poi non sono in grado di porsi effettivamente alla testa dell’ala modernizzatrice del Paese. Niente slanci, nessun cuore oltre l’ostacolo. Pier Luigi Bersani e compagni hanno il complesso della frenata a tutti i costi, anche per motivi strategici: se una qualsiasi riforma producesse risultati positivi, ci sarebbero problemi a livello elettorale. Ecco dunque che è meglio gettare fango su ogni provvedimento, precostituirsi una difesa politica e magari trasformarla subito in attacco.
I “rivoluzionari di casa nostra” in realtà sono i veri oscurantisti, la cui unica luce è la sacralità della Costituzione, di cui – a detta loro – sarebbe una sorta di bestemmia modificare pure una virgola. Nelle loro battaglie di retroguardia hanno tentato di opporsi persino ai provvedimenti di Renato Brunetta che miravano a modernizzare la Pubblica amministrazione e a porre la questione di merito colpendo i cosiddetti fannulloni. Poi i provvedimenti sono andati in vigore, hanno avuto risultati sorprendenti e gli esponenti della sinistra hanno fatto finta di niente, non ne hanno parlato più. E così succede pure a quella parte del sindacato più sensibile al problema dell’occupazione e della competitività delle aziende: lo statuto dei lavoratori non si tocca, il welfare men che meno, le pensioni non se ne parla e la flessibilità è un mostro da cancellare dalla faccia della terra. Paura dell’ignoto? No, semplicemente voglia di ideologia. I gruppuscoli extraparlamentari degli anni Settanta sostenevano la primogenitura dell’aristocrazia operaia e oggi qualcuno continua a rimanere ancorato a quei ragionamenti senza capire che in questo modo si tutelano i garantiti e si continuano a tenere fuori dalla porta i deboli, gli indifesi e i giovani che si affacciano al mondo del lavoro.
Emblematica in questo senso è stata la vicenda degli stabilimenti Fiat di Mirafiori e Pomigliano, con la Fiom schierata sulle barricate per non far passare il referendum e i lavoratori che, invece, hanno votato per introdurre le novità volute da Sergio Marchionne. Ma non è soltanto questo. Il Pd, che non affronta il rebus della bolletta energetica e delle risorse future, in un Paese dove accendere una lampadina costa oggi il trenta per cento in più rispetto alla Francia, alla Germania e al resto dei concorrenti europei, costituisce il resto del problema. Progressisti di che?, verrebbe da domandarsi.
Le conseguenze finiscono però sulle spalle della gente comune. Passata la guerra referendaria, l’acqua e la rete sono rimaste pubbliche, ma ci sono sempre da tappare le falle nelle tubature che portano alla dispersione del quaranta per cento dell’acqua dei nostri acquedotti, mentre il Sud d’estate soffre la siccità con i rubinetti di molte città restano a secco per gran parte della giornata. Poiché la soluzione, visto lo stato della finanza pubblica, difficilmente potrà arrivare dai Comuni o dalle municipalizzate, allora sarà necessario ricorrere a qualche sotterfugio per far rientrare dalla finestra quello che è uscito dalla porta. Del referendum, dunque, si poteva fare tranquillamente a meno, come si poteva fare a meno di politicizzare un evento che di politico ha poco o nulla. L’acqua disponibile ieri è la stessa acqua che è disponibile oggi: il problema è non sprecarla. Servono acquedotti più moderni, rubinetti e saracinesche che non lascino passare parte del liquido e capacità di mantenere le falde acquifere lontane dalle fonti di inquinamento. Non è un caso se gran parte della popolazione italiana oggi acquista per bere l’acqua minerale mentre un tempo si limitava a girare il rubinetto della cucina. La coperta è corta, ma i nuovi “retrogradi” si voltano dall’altra parte.