Centrodestra, la parola d’ordine: “Discontinuità”
Lui l’ha buttata lì: «I quattro leader che hanno fondato il centrodestra e con esso questo bipolarismo malconcio e immaturo facciano tutti un passo indietro e da padri davvero nobili si impegnino a non presentarsi alle primarie, per fare emergere chi viene dopo loro e dopo noi, appunto un’altra classe dirigente, finalmente veramente tale e se possibile coesa». Adolfo Urso dispensa anticipazioni dall’editoriale del prossimo numero di Charta Minuta un po’ per vedere l’effetto che fa. E c’è da dire che trova terreno fertile: la parola d’ordine, in tutti gli osservatori che commentano i destini del Pdl, è “discontinuità”. Un “cambio di passo” che, spesso, coincide con il “passo indietro” del leader o dei leader. Ma l’esponente di Fli precisa: «Attenzione, io intendevo proporre primarie per stabilire il prossimo candidato premier, non il leader di partito. Del resto è un’ipotesi di lavoro che lo stesso Berlusconi ha già proposto. Il punto è che noi dobbiamo dar vita ad un passaggio d’epoca in vista della ricomposizione di tutto il centrodestra. I partiti – prosegue – potranno rimanere. E anche i leader attuali potranno agire da padri nobili. Di sicuro, tuttavia, serve una forte scossa. Una dinamica di partecipazione al percorso decisionale che costituirebbe una vera discontinuità col berlusconismo». Niente “ritorni a casa”, quindi. Nonostante i rumors. «Macché – replica – quella è una logica perdente. Non dobbiamo fare la retroguardia del Pdl ma l’avanguardia del Paese. Magari cominciando a ricordarci che non tutto si ferma al Palazzo…».
Distinguere premier e leader
Appunto, la discontinuità. È quello che chiedono tutti. E che, par di capire, finora non c’è stata. Malgrado la batosta delle amministrative. E quella al referendum. «Macché – spiega Mario Sechi, direttore del Tempo – non c’è stato alcun cambio di passo. La nomina di Alfano poteva essere un primo passo, ma il fatto che i coordinatori restino al loro posto vanifica tutto. Si continua a fare spallucce, c’è un momento di smarrimento enorme. Che però dura da un anno e mezzo». E se il problema fosse proprio lui? Sì, sì, lui. Molti lo pensano ma non lo dicono. Sechi, invece, ha idee molto chiare: «Distinguiamo leadership e premiership, come accade in tutta Europa. Il leader di un partito non deve per forza essere premier. Nella prima repubblica i segretari dei partiti non erano mica presidenti del Consiglio. Berlusconi continui a fare il leader di partito, ma a Palazzo Chigi vada un altro. Così si potrebbe chiudere con saggezza una stagione politica straordinaria. Inoltre la leadership potrebbe restare carismatica, mentre la premiership dovrebbe essere sottoposta alle primarie. Si tratterebbe di una soluzione improntata ad acume politico e umiltà». Non parlate al direttore del Tempo, tuttavia, di soluzioni che ricomprendano Gianfranco Fini: «Lui non conta niente, è più un problema che altro. Faccia la sua strada. Legittima, per carità, ma che per ora non sembra approdare da nessuna parte. Dubito, però, che gli elettori capirebbero un suo ritorno in campo nel settore politico in cui è bollato come traditore».
Il passo indietro del Cav
Anche Alessandro Campi non sembra convinto delle mosse attuate finora dal Pdl per uscire dalle sabbie mobili. «La questione della natura del Pdl – spiega – è dirimente e non si può certo risolvere designando dall’alto un segretario generale. Perché bisogna chiarirci: questa figura avrà autonomia politica e di indirizzo o sarà un mero portavoce? Fino ad ora il Pdl ha dimostrato di non esistere, di essere una mera propaggine del premier. Eppure il partito è l’unico strumento per garantire la transizione. O la si organizza in forma congrua o è solo maquillage». Ma insomma, il problema è davvero Berlusconi? «No – dice Campi – sono quelli che gli stanno intorno. Sono queste piccole ambizioni personali che vanno di pari passo con gli attestati di fedeltà incondizionata. Ma prima o poi qualcuno dovrà avere il coraggio per esporsi in prima persona contro Berlusconi. Il solo avvenire possibile per il berlusconismo sarà un gesto di discontinuità verso Berlusconi. Sembra un gioco di parole, ma non lo è. Non serve che un oscuro parlamentare si sacrifichi per tutti e chieda al Cavaliere di farsi da parte perché questo lo devono dire gli uomini della sua cerchia». E se tutto questo avvenisse davvero? Sarebbe possibile un nuovo centrodestra “ricompattato”, come dice Urso? Insomma, l’idea che circola è che senza Berlusconi Fini e Casini potrebbero anche ritornare all’ovile… «È nell’ordine delle cose possibili – spiega Campi – del resto un centrodestra senza Berlusconi prima o poi dovrà pur esserci. A meno che, una volta che il Cavaliere abbia lasciato, un intero pezzo d’Italia non finisca per scomparire. Perché parliamoci chiaro: Berlusconi non rappresenta solo se stesso. E allora questa Italia che fine fa? Sono damande da porsi, prima o poi…».
Soluzione proporzionale?
Ha meno certezze Marcello Sorgi, che critica l’immobilismo del partito ma allo stesso tempo fatica a immaginare un centrodestra veramente post-berlusconiano. «Non mi pare che fino ad ora il centrodestra abbia reagito alla doppia sconfitta – dichiara – se non con la designazione di Alfano. Che tuttavia, così calata dall’alto, non so quanto aiuti lui per primo. La sensazione è che sia una leadership meramente formale. E poi ci sono vari problemi aperti: Alfano proporrà le primarie per i gruppi dirigenti locali. Ma localmente ci sono gruppi di potere molto forti. Che fine fa Cosentino? E quello che ha messo i manifesti contro i pm a Milano? La verità è che si vogliono dare regole a un partito che non ne ha mai avute». Quanto a una eclisse del Cavaliere dalla scena politica, Sorgi è perplesso: «Il punto fondamentale è che Berlusconi non sembra proprio avere questa intenzione. E poi mi chiedo: un Pdl senza Berlusconi esisterebbe? Ci sono quattro, cinque correnti. Più situazioni come quella di Micciché». Ma per l’editorialista una soluzione forse il Pdl l’ha a disposizione: «Si parla tanto di cambiare la legge elettorale. Ma a questo punto perché non puntare sul proporzionale? Piacerebbe a tutti, a difendere il maggioritario rimarrebbe solo parte del Pd. Ma non D’Alema, ad esempio. Ma anche questi ragionamenti lasciano il tempo che trovano: tutti i sondaggi dicono che il centrosinistra, se si votasse oggi, potrebbe conquistare il premio di maggioranza alla Camera. Ma con i parlamentari del Terzo polo potrebbero avere i numeri anche al Senato. Insomma, dubito che Berlusconi e Bossi vogliano andare alle elezioni…».