Metti una sera (politica) a San Giovanni
Le due facce del Primo maggio. Divise e contraddittorie, deboli nel tentativo di cambiare stile, forti nel resistere alle tentazioni di lasciare tutto com’era, di riproporre lo stesso copione di sempre, magari con qualche piccolo correttivo di facciata, una modifica (poco riuscita) al look e al linguaggio. Un’occasione sprecata di rinnovarsi quella del Primo maggio sindacale e musicale di domenica, che non ha retto al confronto con la giornata di Wojtyla – e questo era ampiamente previsto – ma soprattutto ha deluso per la mancanza di coraggio e l’incapacità di parlare alla pancia della gente. Troppo facile riproporre, come ha fatto la Cgil, gli appelli all’unità sindacale, con i toni dei militanti di partito. Un po’ pretestuoso presentare tra una canzone e l’altra gli artisti sul palco, stavolta senza comizi, fingendo una par condicio che non c’era perché, dichiaratamente o meno, la stragrande maggioranza dei big era schierata da una sola parte. Inutile il tentativo di politicizzare la piazza perché, eccetto chi era giunto in piazza San Giovanni con tanto di striscioni e cartelli preconfezionati, i giovani erano lì solo per ascoltare Lucio Dalla e Francesco De Gregori, non certo per manifestare contro il governo. Tutto questo dimostra l’inadeguatezza degli organizzatori e l’incapacità della sinistra di essere al passo coi tempi, di capire il mondo giovanile, di venire incontro alle esigenze dei lavoratori.
Il lupo perde il pelo ma non il vizio,a cominciare dallo spettacolo. Sul palco c’erano presentatori e artisti chiamati ad essere equilibrati, come in una recita a soggetto. Pesava l’etichetta che ognuno di loro si portava sulle spalle (quasi tutti di sinistra) e non era poco. Così, alla fine, la tanto attesa par condicio non c’è stata se non nelle parole. E chi si era recato in piazza san Giovanni per assistere a una rappresentazione nuova e slegata dalla tifoseria di parte è tornato a casa convinto che in questo Paese la partigianeria politica è dura a morire. C’era Caparezza, il rapper anti-Silvio, che ha fatto canzoni contro il premier e che non se l’è sentita di non attaccare Palazzo Chigi. Si sa, per uno come lui l’antiberlusconismo è una missione. C’era Luca Barbarossa, che non ha mai nascosto la sua appartenenza politica e che, persino a Sanremo, aveva dichiarato di voler duettare col premier «se solo si dimettesse…». C’era Daniele Silvestri, anche lui “padre” di brani contro il Cavaliere, persino sotto pseudonimo. In sostanza, c’erano tutti quelli che si nutrono di pane e antiberlusconismo. Salvo poi il consiglio a non esagerare, in fondo era il Primo maggio e non una manifestazione di partito.
Ma non solo. Che cosa significa “non parlate di acqua e referendum” se poi si costringono i funzionari della questura a intervenire per rimuovere un cartello con la scritta “Berlusconi imbroglione, restituisci il referendum. Noi vogliamo votare”? E per quale esigenza, se non quella di accontentare la sinistra radicale, si torna a intonare il Bella Ciao del politicamente corretto? L’inno nazionale è sembrato essere solo la ciliegina sulla torta, un tentativo di controbilianciare gli artisti militanti con Fratelli d’Italia.
Poi ci sono i particolari. Lo striscione contro Berlusconi, Bella ciao, ma anche una serie di parole dette a mezza bocca o piccoli ammiccamenti contro quella che è stata definita «una censura da regime cinese», perché ha proibito agli artisti di esprimere la propria opinione durante il concerto, hanno finito per avere il loro peso. Alla fine si può suonare anche la grancassa della poca politica e del patriottismo, espresso con lo sventolio di qualche tricolore, mani alzate, l’Inno di Mameli, Gino Paoli che canta Va’ pensiero, i ripetuti omaggi a Verdi, Dalla e De Gregori, che intonano insieme Viva l’Italia, la prima assoluta dell’Elegia per l’Italia di Ennio Morricone, che cita ancora il Va’ pensiero di fronte a mezzo milione di persone che affollano la piazza. Ma cosa ha a che fare tutto questo con la par condicio, se tra gli artisti che affollavano il palco e perfino tra una parte del pubblico serpeggia forte la polemica contro la Rai per aver imposto di non dare indicazioni di voto sul referendum? Praticamente nulla.
Fin qui le divisioni e le strumentalizzazioni politiche, portate sul palco in una giornata che avrebbe dovuto essere dedicata interamente a lavoro e allo svago. Al concertone romano hanno fatto seguito i distinguo all’interno del sindacato tra chi, come la Cgil, continua a ritenere che le rivendicazioni in tema di diritti e di politica del lavoro possano e debbano essere usati per fare politica (o meglio, per sostenerla), e chi come invece l’Ugl, la Cisl, la Uil e parte del sindacalismo autonomo, contestano a Corso d’Italia una posizione massimalista e fiancheggiatrice dell’opposizione di sinistra. Divisione di merito oltre che di metodo: sui referendum alla Fiat, sul contratto dei metalmeccanici, sulla politica industriale e perfino sulla necessità e il modo di contrapporsi alla politica economica del governo. In questo senso aver sfilato assieme a Marsala, per ricordare i 150 anni dell’Unità d’Italia, sarà pure servito in termini d’immagine, ma è sembrato del tutto ininfluente sul fronte delle posizioni da assumere per affrontare i problemi. Tanto che Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, è arrivato a sostenere che «la via dell’unità sindacale è più facile, volendola ciascuno». Come dire che la Cgil la desidera a parole, ma non la pratica nei fatti.
Giorgio Napolitano, ricevendo le organizzazioni sindacali in occasione della Festa del lavoro ha lamentato questo stato di cose e ha fatto bene. Così non si va da nessuna parte e a rimetterci sono i lavoratori. «Divisi i sindacati sono più deboli», ha detto Susanna Camusso, segreteria generale della Cgil, rivolta ai colleghi di Cisl e Uil che l’affiancavano sul palco di Marsala. «Il Primo maggio – ha aggiunto – deve essere per noi un’occasione per ragionare sugli effetti negativi della divisione sindacale». Ma i problemi restano. Dalla piazza i fischi e le contestazioni a Bonanni e Angeletti non sono mancati. Poche persone, ma agguerrite più che mai. Tanto che ieri, il segretario generale della Cisl, inaugurando Labor Tv, la televisione della Cisl, è tornato sull’argomento affermando che «sono state le solite due o tre persone ad urlare ed è un fatto davvero stucchevole. Sono stufo – ha aggiunto – di assistere a queste violenze verbali che precedono sempre le violenze fisiche. Di solito sono i fascisti a fare così – ha sostenuto il leader sindacale – far star zitti gli altri, ma oggi questo arriva da chi si dice antifascista». Il riferimento alla Cgil e evidente. Pre questo Bonanni e Angeletti hanno detto a chiare lettere di non farsi soverchie illusioni in materia di unità sindacale: accettano il confronto ma non mancano di rimarcare barriere e distanze. Tutto questo mentre da Torino arrivava la notizia di forti tensioni alla manifestazione dei sindacati: giovani dei centri sociali hanno bruciato bandiere della Cisl e della Uil e contestato il candidato sindaco del centrodestra Michele Coppola. La condanna è d’obbligo, ma bisognerebbe anche operare perché situazioni simili non abbiano a ripetersi.
Bonanni commentava i fatti della giornata temendo soprattutto per quello che potrebbe succedere nei prossimi mesi con sul tavolo una piattaforma che vede in primo piano la riforma del fisco. «Il ministro Tremonti – ha detto – deve misurarsi su questo, se ha coraggio. E se lo avrà riceverà il nostro appoggio». L’appuntamento con la Cgil è per il 21 maggio, data della manifestazione organizzata da Cisl e Uil proprio per chiedere la riforma fiscale. Susanna Camusso ci sarà? Al momento non si sa. È chiaro però, ha promesso Bonanni, che «su questo si assisterà ancora a delle iniziative forti della Cisl e della Uil. Spero si aggiunga anche la Cgil». Cgil che, intanto, un segnale di responsabilità lo ha dato. Ieri, in occasione del voto (la consultazione si conclude oggi alle 18) sulle condizioni poste dalla Fiat per realizzare nella ex Bertone di Grugliasco un investimento da 550 milioni di euro, i delegati Fiom hanno chiesto ai lavoratori di votare sì. Un atto di responsabilità, secondo le altre organizzazioni sindacali, che però non hanno mancato di far osservare che erano le Rsu e non la segreteria della Fiom a dare disco verde. La base, insomma, non sempre è allineata con le posizioni dei vertici. In fabbrica si pensa al lavoro, a Corso d’Italia molto spesso si fa politica e ci si ubriaca di ideologie.