L’autogol di D’Alema

28 Apr 2011 19:58 - di

Se Comunardo Niccolai infilava la palla all’incrocio dei propri pali con maldestra ma involontaria veemenza, Massimo D’Alema ama buttarla dentro col sorriso sulle labbra, da gran figo della politica, nel brusio ironico e rassegnato dei propri compagni. Quelli che anche ieri, sul web, al bar, in Transatlantico hanno riso amaramente del suo ultimo autogol, l’ultimatum lanciato a Berlusconi: «Si dimetta, se perde le amministrative», ha tuonato. I più teneri, a sinistra, gli danno dell’ingenuo. «È caduto nella trappola di Berlusconi», «Se avevamo qualche speranza di vincere a Milano…». «E chi decide l’insuccesso? Deve perdere Milano, a Napoli, a Canicattì?». I più maliziosi, invece, muovono da un antico sospetto: che D’Alema lavori, ancora una volta, per rafforzare Berlusconi. E che anche in questo caso gli abbia praticato un’iniezione di viagra politico intraelettorale.
Ma perché la sortita di D’Alema su Repubblica può essere considerata un regalo politico al premier? In primo luogo, l’ex premier avrebbe dovuto ragionare sul perché Berlusconi da alcuni giorni faccia sapere a tutti che le amministrative sono un test politico per il governo. È evidente che il Cavaliere punta a radicalizzare lo scontro portandolo sul suo terreno preferito, il referendum tra lui e gli altri, non ben definiti concorrenti, visto il marasma che avvolge i possibili leader dell’opposizione. A Milano, in primis, Berlusconi chiede un doppio voto, su di lui e sulla sua scelta di riconfermare la Moratti: un’opzione personale e politica, targata a chiare lettere Pdl, con la quale ridimensionare le velleità leghiste a livello locale e nazionale. Ecco perché il Cav preferisce una campagna elettorale, in Lombardia, che sorvoli sulle questioni di stretto interesse localistico per concentrarsi su tematiche polarizzanti, giustizia, toghe rosse, Br, immigrazione, sviluppo, tasse, su cui non a caso il Carroccio mostra un fastidio fisico quando le si catapulta nel dibattito sulle amministrative.
D’Alema, abboccando all’imprimatur “politico” del Cav sul voto del 16 maggio, di fatto gli regala un duello personale da cui è difficile che il premier possa uscire perdente, soprattutto se a “inchiodarlo” a possibili “conseguenze sul governo” è una figura ormai consunta come D’Alema.
L’autogol dell’ex lìder maximo, però, nasce anche da un dato di fatto. Il suo gesto di dimettersi, nel 2000, non scaturì soltanto dal cattivo risultato del centrosinistra alle Regionali, ma da un difetto d’origine: il suo governo nasceva già zoppo, sulle ceneri di un ribaltone tutto interno consumato ai danni di Romano Prodi che non gli fu perdonato in modo assolutamente bipartisan. Non a caso i termini di quella sconfitta furono amplificati dal boom elettorale di partiti come Alleanza nazionale e del suo leader Gianfranco Fini, che raggiunsero lo storico risultato del 13% proprio cavalcando lo sdegno bipartisan degli elettori per le logiche ribaltoniste. E anche la vittoria nel Lazio di Francesco Storace non fu isolata. In quell’occasione, infatti, su 15 regioni al voto l’Ulivo non riuscì a riconfermarsi in Liguria, Lazio, Abruzzo e Calabria, con 8 regioni (pari a 32 milioni di abitanti) vinte dalla coalizione avversaria, contro le 7 regioni conquistate (pari a 16 milioni di abitanti) dal centrosinistra. In seguito a una decisione del Tar, poi, anche in Molise si impose il candidato del centrodestra, l’anno successivo.
Ecco perché oggi le conseguenze politiche di un eventuale tracollo del centrodestra in tre città italiane, con una platea di circa 13 milioni di elettori (pur con la delicatissima sfida di Milano che realmente potrebbe scuotere il centrodestra) non sono minimamente paragonabili a quelle che dovette subire l’Ulivo nel 2000, quando a votare furono chiamati 41 milioni di italiani.
Comunque vada, Berlusconi, statene certi, non se ne andrà: non lo avrebbe fatto comunque, ma il fatto che glielo chieda D’Alema, paragonando la sua personale waterloo politica a quella (eventuale) del premier, rende quella richiesta paradossale, perché rivolta ad un governo non ribaltonista, da una seconda linea del Pd e a fronte di un voto che coinvolge appena un terzo degli aventi diritto al voto in Italia. E se il premier strappasse un risultato accettabile? Presenterebbe l’esito delle urne come una sua vittoria contro tutti e tutti, le opposizioni, i giudici, gli aspiranti delfini e perfino la Lega. Sorvoliamo su un eventuale trionfo.
Sarà un caso, ma a quel dirompente ultimatum di D’Alema, nel Pd, non si associa nessuno, tantomeno Bersani. Parla solo Giorgio Merlo, che però di quell’intervista commenta un altro appello, quello all’unità del Pd, mentre sull’ultimatum a Berlusconi preferisce calare un velo pietoso. Nel centrodestra, invece, parla il capogruppo del Pdl Maurizio Gasparri, che taglia corto: «D’Alema? È il profeta del nulla, ne ha lanciate molte di sfide ma ne ha perse più di quelle che ha lanciato». E per una volta dice una cosa di sinistra.

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