Dalla manina anti-Cantone ai vaccini: in Italia non comanda più nessuno

23 Apr 2017 10:41 - di Lando Chiarini

Le polemiche sulle vaccinazioni di massa, ma anche quelle sulla “manina” di Palazzo Chigi che ha cancellato i poteri di Cantone ad insaputa del premier Gentiloni sembrano più e meglio di tante altre idonee ad accreditare la sintesi cui un paio d’anni fa pervenne un sociologo del calibro di Giuseppe De Rita: “In Italia – sentenziò infatti il fondatore del Censis – non comanda più nessuno”. Sembravano parole in libertà, di quelle che sentiamo sibilare dai tavolini di un bar o alla fermata del tram. Invece, era un’amara profezia. In Italia non esiste ormai potere o autorità che non corra il rischio di vedere la propria decisione contestata e disattesa da comitati, petizioni e manifestazioni di piazza. A volte è la stessa sfera pubblica ad erigere muri di gomma per sabotare morbidamente decisioni sgradite. Morale: siamo tecnicamente in una condizione di anarchia. Lo spazio dello Stato, ridotto a un sacco vuoto, è occupato da feudi più o meno grandi e significativi che esercitano poteri parcellizzati. Poteri in grado di ritardare, bloccare, vietare, ma non di autorizzare, velocizzare, risolvere. Il risultato è il disordine diffuso che ormai ci rimbalza dalla cronaca quotidiana piuttosto che dai grandi fatti della politica. Dai viadotti che si sbriciolano come biscotti più che dalle annose polemiche sul ponte di Messina, dal branco di Alatri più che dalle transumanze in Parlamento, dalla giustizia fai da te più che dalla lentezza dei processi, dal turpiloquio in tv più che dalle polemiche sulla “buona scuola”, dall’audience di Gomorra più che dalle inchieste sui colletti bianchi. La nostra è una nazione sottosopra, che ha invertito la scaletta dei bisogni per privilegiare desideri travestiti da diritti, localismi esasperati e deresponsabilizzazione generalizzata. Più che un amico, ci vorrebbe una destra. Una destra in grado di restituire senso e dignità ad una nazione fragile e spaesata, già da tempo sprofondata nella posizione storicamente più congeniale: quella di colonia. Lo segnalano tutti gli indicatori, a cominciare da quello demografico. È di qualche giorno fa la notizia che un alto “papavero” di Google, Val Harian, ci ha additato al mondo come una nazione senza futuro. Come dargli torto: senza figli non c’è domani. E quei pochi giovani che ancora resistono sognano la Germania o la Gran Bretagna, a seconda che siano più attratti da un welfare senza assistenzialismo o da una competitività senza trucchi. Persino la nostra lingua è imbastardita in uno stucchevole itainglese che si diffonde a macchia d’olio anche per colpa di istituzioni distratte o inconsapevoli. Insomma, ci piaccia o no, siamo ripiombati in quella condizione di «espressione geografica» coniata apposta per noi al Congresso di Vienna del 1815. Con la differenza che mentre l’Italia degli staterelli partorì il Risorgimento, il cui mito, seppur non privo di ombre, alimentò l’unità nazionale, tre guerre d’indipendenza e la vittoria militare del 1918, questa attuale è sterile anche nella narrazione collettiva. Non meravigliamoci, quindi, se a farla da padroni siano i falsi profeti alla Grillo, i finti statisti alla Renzi e pseudo-governanti alla Gentiloni. C’è poco da stare allegri: Dio, o qualcuno per Lui, salvi l’Italia.

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