Ebola, negli Stati Uniti è morto il “paziente zero”. Un ricoverato allo Spallanzani di Roma ma è un falso allarme

9 Ott 2014 11:29 - di Redazione

L’allarme è alto. Ma l’allarmismo lo è ancora di più. L’ossessione del virus Ebola sta contaminando molte più persone di quante lo faccia il virus stesso.
I medici dello Spallanzani di Roma, che in questo momento gestisce con tre operatori un laboratorio in Liberia, l’unico paese in cui l’epidemia continua con un grande tasso di crescita, frenano e invitano alla prudenza: i controlli ci sono, non si faccia allarmismo, dicono. Sottolineando che quella del medico marchigiano ricoverato allo Spallanzani è un falso allarme. L’uomo non ha contratto il virus, i controlli sono risultati negativi. Dunque, troppo allarmismo. E lo stesso ministro della Sanità invita alla prudenza: «Il caso del medico di Emergency ricoverato allo Spallanzani è un non caso. Non è malato di Ebola, i test sono risultati negativi. C’è forse stato un eccesso di precauzione. Ma meglio così, meglio essere prudenti per evitare casi come quelli dell’infermiera spagnola contagiata».
«Riceviamo circa 10 telefonate al giorno da ospedali di tutta Italia – rivela Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto Spallanzani di Roma – e abbiamo distribuito un questionario a tutti i pronto soccorso del Lazio e a quelli che ce lo hanno chiesto dal resto del paese per aiutare nell’identificazione dei casi sospetti».
E proprio ieri allo Spallanzani un esperto ha spiegato ha spiegato che il vero serbatoio del virus sono i pipistrelli che rappresentano il 20 per cento dei mammiferi e che a favorire l’inizio dell’epidemia di Ebola sono stati fattori causati dall’uomo, come la deforestazione o i cambiamenti climatici che hanno portato le popolazioni africane molto più a contatto con i pipistrelli.
Quanto alle strategie e alle procedure da adottare nel prossimo futuro, in Italia c’è già una traccia: «dobbiamo tracciare gli operatori e più in generale tutti i viaggiatori che tornano o arrivano in Europa dai paesi a rischio», e inoltre «inviare medici europei anche negli aeroporti africani di partenza, che facciano prevenzione e informazione».
Per far questo si sta pensando «con la Cooperazione e le nostre Ong se sia possibile realizzare una “zona di decompressione” per tutti i cooperatori per un periodo di 21 giorni prima di tornare in Europa: avremo la certezza che in nessun modo potranno esserci contagi – spiega Lorenzin – Le missioni in West Africa sono fondamentali: contribuiscono a fermare il contagio. E fermarlo è nell’interesse di tutto il mondo, compresa l’Italia. Se non riusciamo a limitarlo, prima che i contagiati arrivino a quota 20mila, tutto sarà molto più complicato».
Ieri, intanto, è morto negli Usa il cosiddetto “paziente zero” la prima persona a cui l’ebola era stata diagnosticata negli Usa, il liberiano Thomas Eric Duncan  42 anni, ricoverato a Dallas per aver contratto il virus dell’ebola. Duncan aveva contratto il virus a Monrovia aiutando la figlia di una coppia di amici a recarsi in ospedale e quando ancora non aveva sintomi visibili era arrivato negli Stati Uniti, per una visita ad alcuni suoi parenti.

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